Medico e (anti)eroe
New York, inizio ‘900, ospedale Knickerbocker (detto «The Knick») di Harlem. Attesa media di vita: 47 anni. Il dr. Thackery è stanco, bruciato da un carico lavorativo devastante e dall’ambizione di escogitare approcci tecnici nuovi. Una New York gelida e cinica produce – implacabile – povertà e malattia. L’ospedale è in crisi economica e l’amministratore invita i portantini corrotti a ricoverare malati benestanti. Girano mazzette, i dottori trafugano dati scientifici di altri istituti, si pratica l’aborto clandestino e la suora cattolica si fuma una sigaretta: c’è poco da sperare. E poi quel medico ha dichiarato guerra contro Dio...
Sfida con la morte
Quel medico è il dottor Thackery (interpretato da Clive Owen) e il suo mondo morale è corroso da ambiguità. Calma l’ansia da stress con l’oppio e i vizi notturni della Chinatown e s’appoggia alla cocaina per tornare a operare, ogni dannata mattina. Lui vorrebbe tener separati il lavoro e la vita, la tecnica e gli affetti, gli organi guasti e i pazienti. Ma ovviamente non ci riesce. Mancano ancora gli antibiotici, si lavora senza guanti, in condizioni igieniche precarie e soprattutto si accumulano insuccessi: per la dodicesima volta una donna gravida, con placenta previa, gli muore sotto i ferri, assieme al feto. C’erano solo cento secondi di tempo per salvarla. Il collega anziano si spara per il senso di colpa. Lui no. Non si risparmia. Tenta di tutto e, per questo, lo spettatore lo ama. Lo ama perché è in guerra. Una guerra ruvida, brutale, spasmodica contro l’eterna nemica, la morte. Lui lo dichiara nell’omelia per il collega scomparso: «Non perdo la speranza; viviamo in un mondo di infinite possibilità, che abbiamo conquistato!». È la procedura che ha fallito, non noi.
Il fascino del domatore
Thackery è a suo modo elegante. Indimenticabili i suoi stivaletti di pelle bianca, indossati senza calzini. Fascinosi i suoi disegni anatomici e i progetti meccanici per strumenti migliori. Thackery è colto. Cita Shakespeare, mentre impugna i ferri: «Molti colpi, sia pure di piccola scure, abbattono la quercia più robusta» (Enrico VI, parte III). Per difendere l’immagine dell’ospedale si scontra con il neo-assunto, di colore. Ma non per avidità: a New York non c’è tempo per il progressismo razziale. Nei consigli d’amministrazione litiga coi dirigenti: che competenze sanitarie hanno questi burocrati? Rimprovera le infermiere a voce alta, davanti ai ricoverati. È il domatore antipatico di un circo selvaggio.
Terapeuta ferito
L’eroe, che sperimenta procedure chirurgiche d’avanguardia, come un nuovo Prometeo, è in realtà un terapeuta ferito, peggio dello zoppo dr. House. Perciò, anche se non lo ammette, ha bisogno dell’alleanza di chi lo circonda. Anzitutto di noi spettatori, che diamo fiducia alla sua indipendenza e ci lasciamo sedurre dalle gialle luci del regista, dalla scenografia neoclassica schizzata di sangue, dalle musiche tecno-minimaliste di Cliff Martinez. Noi vogliamo sostenere la sua tenacia, ma anche preservarlo dalla megalomania. Non intendiamo delegare a lui le questioni etiche, ma contiamo sulla sua esperienza clinica per decidere assieme quale trattamento sia proporzionato e quale invece eccessivo. Non vogliamo né arrenderci pavidamente alla malattia, né resistere accanitamente a costo di perdere la dignità del vivere. Il cinema è come un teatro anatomico e un racconto riuscito, è come una cura medica efficace: si oppone alla cecità assurda, al buco nero della malattia, all’ingiustizia di una società infetta dalla brama di profitto.
«The Knick», serie TV creata da Jack Amiel e Michael Begler, Usa 2014, HBO/Cinemax, regia di Steven Soderbergh. La serie è stata trasmessa in Italia a partire dal novembre 2014 sul canale Sky Atlantic.