Nel Paese delle oasi
Anche quest’anno il cavaliere d’Italia è arrivato nella riserva naturale di Torrile e Trecasali (PR). Ha lasciato l’Africa un po’ in anticipo rispetto a una decina di anni fa. E, a inizio marzo, è atterrato in Pianura Padana. Fortuna che gli operatori della LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli) si erano presi per tempo e – ben conoscendo gli effetti del riscaldamento climatico sulle abitudini migratorie dei volatili – avevano già tagliato il canneto, aggiungendo anche degli isolotti in legno utili alla nidificazione. Se, al contrario, i cavalieri avessero trovato un ambiente meno curato e accogliente, con tutta probabilità sarebbero volati altrove, innescando magari negli anni un impoverimento progressivo nella fauna e nella flora del territorio. Una rondine (o meglio un cavaliere) non fa primavera? In questo caso forse sì. Con tutto il rispetto per i proverbi, l’esempio di Torrile è un indizio emblematico. Perché testimonia il valore delle aree naturali protette quali baluardi di biodiversità su cui si regge il destino del Pianeta.
In Italia – come riporta il sito del ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica – esistono 871 aree protette, per un totale di oltre 3 milioni di ettari tutelati a terra, circa 2.850 mila ettari a mare e 658 chilometri di costa. Di queste aree, 24 sono parchi nazionali e 32 sono aree marine protette. Le restanti si dividono tra parchi regionali e interregionali, riserve naturali e oasi, cioè, per dirla con le parole di Marco Galaverni, «aree delimitate – spesso gestite da soggetti privati – in cui si evitano attività dannose per la natura e in cui ci si prende cura attivamente di flora e fauna, conservando e/o ripristinando specie e habitat rilevanti». Parla con cognizione di causa il direttore delle oasi WWF italiane. È stato proprio il World Wide Fund for Nature, infatti, a inventare il concetto di oasi nel nostro Paese, a partire dagli anni ’60. Era il 1967 quando venne istituita l’oasi Lago di Burano nella Maremma meridionale: 410 ettari, più altri 600 sottratti all’attività venatoria, che abbracciano uno stagno costiero salmastro e ospitano oltre 500 specie di piante e oltre 300 di uccelli.
Da allora le oasi WWF sono cresciute progressivamente, con una accelerazione a cavallo del 2000, per poi stabilizzarsi nel ventennio successivo. «Oggi contiamo 100 oasi sparse in Italia da Nord a Sud – continua Galaverni –. Tra queste, un quinto appartiene al WWF ed è stato acquistato tramite raccolte fondi dei soci. Le altre sono di proprietà del demanio o di privati. Molte oasi nate in seno al WWF, poi, sono state riconosciute aree protette a livello regionale, nazionale e internazionale. Penso, ad esempio, all’area che circonda il massiccio della Majella, in Abruzzo: da oasi è divenuta parco nazionale. Per non parlare della Laguna di Orbetello, in Toscana, che è stata inglobata nella più ampia riserva naturale regionale». In ogni caso, un bel successo per l’ong fondata nel 1961 a Gland (Svizzera). Anche considerati i 300 mila visitatori verificati che ogni anno percorrono i 35 mila ettari di oasi italiane sotto il segno del panda (marchio storico del WWF).
E le soddisfazioni non finiscono qui. «È grazie all’istituzione delle oasi se negli anni ’80 siamo riusciti a salvare l’ultima grande foresta mediterranea, nonché la più estesa dell’intero bacino – spiega Galaverni –. Mi riferisco all’oasi di Monte Arcosu in Sardegna, nel Parco regionale del Gutturu Mannu (CA). Là, tra lecci, sugheri e mirti, abbiamo salvato il cervo sardo, una specie ormai estinta in Corsica e di cui in territorio sardo rimanevano poche centinaia di esemplari. Ora ne contiamo 10 mila!». Ma questo grande risultato sarebbe poca cosa senza il supporto di un progetto di sensibilizzazione che il WWF porta avanti nell’intento di educare milioni di persone alla tutela del Creato e all’amore per la natura.
«Migliaia di bambini ogni anno partecipano ai nostri campi estivi nelle oasi, per non parlare di tutti gli adulti che, durante questi incontri, si avvicinano incuriositi e ricordano con nostalgia la loro esperienza nei campi WWF» conferma l’esperto. Coinvolgere, far riflettere e imparare a entrare in contatto con la natura con consapevolezza sono gli obiettivi che un po’ tutte le attività WWF si prefiggono. Dalle lezioni di yoga nella natura fino alle visite guidate con tanto di illustratrice. «A giugno si apre la stagione delle visite notturne alla ricerca delle lucciole – anticipa Galaverni –. Mentre a settembre inaugureremo un programma sistematico di forest bathing (bagni nella foresta). Nell’oasi di Miramare a Trieste, poi, abbiamo installato un battello elettrico che aiuta a pulire il mare dalle plastiche. Mentre nelle vicinanze di Roma e Napoli sono aperte due mostre sui dinosauri, ricostruiti a grandezza naturale. Stesso tema per il percorso di realtà virtuale che stiamo per lanciare nell’oasi lombarda di Vanzago. Morale della visita? La scienza ci dice che abbiamo innescato un’estinzione di massa. Se non cambiamo presto le nostre abitudini rischiamo di essere i prossimi dinosauri!».
Salvare la natura conviene
La natura è bella e necessaria, dunque, ma anche redditizia. Ecco perché è fondamentale investire in «rinaturazione» (il complesso degli interventi e delle operazioni diretti a ripristinare le caratteristiche ambientali e la funzionalità ecologica di un ecosistema degradato). Studi portati avanti da Nature4Climate24 affermano che per ogni dollaro speso in rinaturazione si prevede un ritorno economico di almeno 9 dollari. Senza contare il circolo virtuoso che si verrebbe a creare… «La natura tutelata crea anche posti di lavoro e nuove professionalità – conferma Marco Galaverni –. In questo momento le oasi della nostra organizzazione danno lavoro a 150 persone, tra guide, educatori, veterinari, gestori e tecnici dei centri recupero. Inoltre, in collaborazione con vari enti, ci occupiamo della formazione di nuove professionalità. Penso al corso per diventare manager della biodiversità organizzato dall’EIIS (European Institute for Innovation & Sustainability) e a quello che prepara gli esperti di outdoor education».
La natura, insomma, se impariamo a rispettarla, può offrirci davvero tutto il necessario per vivere. E anche molto di più. Dall’aria pura alla pancia piena. Un esempio per tutti? L’oasi delle Grotte del Bussento, in Cilento: un luogo a dir poco isolato, lontano dai centri urbani e dalle attrazioni turistiche che richiama ogni anno oltre 15 mila persone da tutta Italia. Turisti che, una volta in loco, soggiornano negli alberghi, consumano nei ristoranti, assoldano guide naturalistiche e, in definitiva, generano ricchezza in una località di poche centinaia di abitanti. Allargando un po’ la nostra prospettiva, di recente l’International Labour Organization (ILO, 2018) ha stimato che 1,2 miliardi di posti di lavoro in settori come l’agricoltura, la pesca, la silvicoltura e il turismo dipendano direttamente dalla gestione efficace e dalla sostenibilità di ecosistemi sani. Ennesima prova, se ancora non era chiaro, di quanto uomo e natura siano connessi, e di quanto impellente sia oggi arrestare il degrado ambientale in vista di un futuro sostenibile. Lo sanno bene i vertici dell’Unione Europea che, nell’ambito del Green Deal (patto verde), hanno fissato una serie di obiettivi rivolti a tutti gli Stati membri, da raggiungere entro il 2030. Tra i propositi: creare nuove zone protette in Europa; tutelare con strumenti giuridicamente vincolanti il 30% della superficie terrestre e marina. E prevedere una protezione più rigorosa degli ecosistemi garantendo il 10% del territorio a protezione integrale.
Sulla scia di queste intenzioni, e a 30 anni dalla legge 394 del ’91 che ha garantito in Italia la crescita delle aree protette (passate dal 3% all’11%), si è fatta avanti Legambiente. «Se oggi l’Italia è leader in Europa nell’impegno per la tutela della biodiversità, la presenza e diffusione di specie e habitat di interesse comunitario sul territorio e per la qualità delle aree e dei paesaggi protetti, il merito è certamente della legge 394/91, che ha saputo “regolare” le esigenze di conservazione della natura con quelle di crescita sostenibile di un complesso sistema di ambiti territoriali protetti» ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. Una legge, dunque, preziosa, che va tuttavia aggiornata. «La riforma della legge – ha di recente spiegato Antonio Nicoletti, responsabile aree protette di Legambiente – deve ripartire da qui: riconnettere le comunità locali con la natura, la bellezza e la biodiversità». Nell’intento che esse si sentano «protagoniste dell’enorme sforzo nazionale e globale che l’Italia e l’intera umanità devono compiere per impedire l’estinzione di massa della biodiversità e il riscaldamento del pianeta, per salvare la casa comune della quale le aree protette sono le fondamenta sempre più indispensabili».
Di fronte alle sfide nazionali ed europee anche il WWF si è attivato: la sua campagna «Renature Italy» si basa su quattro pilastri: protect, connect, restore, rewild (proteggere, connettere, riqualificare e rinaturizzare). «Per ora siamo riusciti a far inserire nel PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) alcuni progetti importanti come la rinaturazione del Po e la digitalizzazione dei parchi – conferma Marco Galaverni –, ma manca ancora un vero piano attuativo della nuova Strategia Italiana per la Biodiversità». Il tempo stringe e il 2030, in fondo, non è così lontano... «Se vogliamo salvare la Terra, nei prossimi anni dovremo fare quello che non abbiamo fatto negli ultimi 50!».
Sentinelle di biodiversità
Tra leggi e piani nazionali, viene da chiedersi che cosa possiamo fare noi comuni cittadini, nel nostro piccolo, per contribuire a tutelare la biodiversità del Pianeta. Non lasciamoci ingannare dalle apparenze, dai grandi numeri e dalla burocrazia. Il cambiamento parte spesso da piccole azioni concrete. Come quelle dei volontari della Lega Italiana Protezione Uccelli che, nel 1979, individuarono e crearono la prima oasi naturalistica LIPU a Crava Morozzo, in Provincia di Cuneo. «Per lungo tempo queste “sentinelle” sorvegliarono il territorio, monitorando gli uccelli e il loro passaggio – ricorda Ugo Faralli, responsabile oasi e riserve LIPU –. Infine, individuarono un luogo preciso in cui i volatili si fermavano più spesso: tra il torrente Pesio e due bacini artificiali costruiti dall’Enel a fine anni ’60 per scopi idroelettrici, ma poi rinaturizzati. Proprio là si decise di creare la nostra prima oasi». Da allora le sentinelle LIPU hanno iniziato a tenere gli occhi ben aperti in tutta Italia, a cercare, osservare e conoscere boschi, fiumi, paludi, laghi, coste, aree montuose…
Un passo dopo l’altro le oasi sono cresciute (ad oggi sono 27, più 8 centri di recupero per animali selvatici, per un totale di oltre 4.500 ettari di natura protetta che ospitano più di 5 mila specie animali e vegetali), come pure i soci (oltre 30 mila da Nord a Sud) e i visitatori (180 mila all’anno). E mentre i volontari, stagione dopo stagione, «ricreavano natura» bonificando boschi, paludi, stagni e canneti, le nuove generazioni maturavano un approccio con le oasi sempre più sensibile e consapevole. «Lo riscontriamo durante i programmi di educazione ambientale che proponiamo agli alunni delle scuole primarie: complice l’informazione globalizzata che corre su tv, web e social network, i bambini di oggi sono molto più preparati di tre o quattro generazioni fa» continua Faralli. Le scuole, però, non sono gli unici soggetti in dialogo con le oasi LIPU. Dalle università ai tribunali, in queste aree di biodiversità si entra per scrivere una tesi, per fare ricerca, per scontare una pena, per lavorare, per festeggiare un compleanno... «Mi piace considerare le oasi come dei contenitori non solo di biodiversità, ma di tante altre cose buone che l’uomo può fare con e in natura» aggiunge l’esperto.
Un’evoluzione che è il risultato di un processo avviato dalla LIPU negli anni ’80. «Replicando il modello di gestione delle oasi del Regno Unito e della Royal Society for the Protection of Birds (RSPB), si è deciso di riconvertire tutte le oasi di protezione faunistica (ovvero aree dove non si può cacciare e dove i volontari possono espletare solo funzioni di monitoraggio e sorveglianza) in riserve naturali. Un upgrade sostanziale perché nelle riserve, oltre al divieto di caccia, sono previste anche altre misure di tutela e conservazione, senza scordare le iniziative che coinvolgono il pubblico. In una riserva, inoltre, non si costruiscono strade, impianti, edifici, e, più in generale, non si svolge alcuna attività in contrasto con la natura». A oggi questo processo di transizione è giunto a metà strada: delle 27 oasi LIPU 13 sono già riserve naturali. Una su tutte, la riserva di Torrile e Trecasali, dove negli ultimi anni ha messo radici anche un carnivoro abituato alla vita nomade. «Negli anni ’80 mai avremmo pensato che le oasi LIPU potessero fungere da casa per il lupo. E invece questo animale di recente ha iniziato a frequentare l’oasi di Castel di Guido nel Comune di Roma, la Gravina di Laterza in Puglia, quella di Bianello in Provincia di Reggio Emilia, la riserva naturale di Torrile e Trecasali a Parma e l’oasi Bosco Vignolo a Pavia. Ha scelto di stabilirsi nelle nostre oasi per riprodursi e continuare a vivere» conclude Ugo Faralli. Segno che a scommettere sulla natura, si vince sempre.
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