Nicaragua, un Paese distrutto
Nel 1979 quanto avvenne in Nicaragua entusiasmò il mondo. Una rivoluzione, guidata da giovani guerriglieri, los muchachos (i ragazzi), fece cadere la dittatura dopo mezzo secolo di potere. Il processo di cambiamento durò a lungo. Fino al 1990, quando la rivoluzione – alla quale era seguita una sanguinaria guerra civile – terminò con le elezioni. Da quel momento, un po’ alla volta il mondo si dimenticò del Nicaragua. Fino al 2007, quando uno dei muchachos del ’79, Daniel Ortega, salì al governo. All’estero tutti pensarono che si trattasse del ritorno degli ideali rivoluzionari. Ma non era così. Quasi subito fu chiaro che si trattava di un cattivo governo. Oggi sappiamo che è stato molto peggio di un cattivo governo.
In questi anni, il sacerdote e poeta nicaraguense Ernesto Cardenal ha sempre ripetuto ovunque lo abbiano chiamato a parlare: «Il mondo deve sapere che cosa succede in Nicaragua». E raccontava come Ortega si fosse impossessato di tutte le istituzioni: potere legislativo, Corte di Giustizia, Fiscalía (l’insieme dei Pubblici Ministeri), Polizia, esercito. Parlava delle frodi elettorali, perché Ortega controllava anche questo ambito. Raccontava dei gravi episodi di corruzione e impunità. Affermava che in Nicaragua c’era una dittatura che ben presto si sarebbe trasformata in una dinastia, perché Rosario Murillo, moglie di Ortega, aveva un enorme potere. Quelli che ascoltavano il poeta facevano fatica a credergli. In Nicaragua c’era crescita economica, stabilità, sicurezza. E il clima di violenza dei tre Paesi vicini (Honduras, El Salvador e Guatemala) non sembrava averlo contagiato. L’«agguerrito» popolo nicaraguense sembrava a tutti soddisfatto.
Da aprile tutto è cambiato. In Nicaragua e oltre frontiera, all’estero. Oggi il mondo sa e deve sapere che in Nicaragua stiamo resistendo, con metodi civili, a una dittatura che fa uso del terrorismo di Stato. Da aprile, questo sforzo è costato più di 300 morti, più di 2 mila feriti, più di mille arrestati – 200 imprigionati e processati –, circa 30 mila esiliati in Costa Rica e un numero imprecisato di scomparsi.
La repressione di Ortega e Murillo è iniziata con le prime proteste degli universitari, cominciate il 18 aprile (i giovani chiedevano maggior attenzione alla tutela ambientale di una riserva naturale e protestavano per una riforma alla previdenza sociale che penalizzava i pensionati), e ha avuto tre fasi.
Nella prima, le unità antisommossa della polizia, accompagnate da forze paramilitari – uomini incappucciati e con armi da guerra – hanno aperto il fuoco contro i dimostranti, facendo molti morti. Questo ha provocato una generale indignazione e mobilitazioni massicce in tutto il Paese. Il Nicaragua si è «svegliato» e centinaia di migliaia di cittadini hanno cominciato a chiedere giustizia per tutti quei morti e l’avvio di un reale processo di democratizzazione del Paese. A maggio, per protesta, ma anche come difesa, i manifestanti hanno cominciato ad alzare tranques (blocchi stradali) in tutto il Paese e barricate nei quartieri della capitale e di altre città. Nello stesso mese, i vescovi del Nicaragua hanno avviato un dialogo a livello nazionale, per garantire al Paese una via d’uscita pacifica dalla difficile situazione, proponendo a Ortega di risolvere il conflitto politico con elezioni anticipate. Ortega non ha accettato.
La seconda fase della repressione è stata caratterizzata dalle cosiddette «operazioni di pulizia». I poliziotti e i paramilitari hanno smantellato i tranques, arrestando e uccidendo chi li difendeva.Fin dall’inizio, e ogni giorno a costo di rischi maggiori, sacerdoti, religiosi e parroci in tutto il Paese, con il sostegno dei vescovi, sono stati in prima linea accanto al popolo, compiendo quello che Gesù si attende da ogni cristiano: hanno dato da mangiare e da bere a chi aveva fame e sete, hanno dato rifugio ai perseguitati, curato i feriti e protetto i minacciati, hanno difeso i prigionieri, hanno accompagnato chi piangeva e difeso chi lottava.
Siamo ora nella terza fase repressiva: le forze di polizia e i paramilitari fanno irruzione nelle abitazioni, giorno e notte, prelevano i sostenitori dei tranques o chi partecipa alle manifestazioni e alle marce. Li imprigionano, molti sono torturati. Li processano come «terroristi». Più di cento tra medici e infermieri hanno perso il lavoro, licenziati dagli ospedali pubblici, per aver assistito i feriti delle proteste.
Il Paese è in lutto e vive nell’angoscia. Non c’è niente di normale. La crisi politica ha provocato una profonda crisi economica. Più di 200 mila posti di lavoro si sono persi a causa della chiusura delle piccole e medie imprese. Il peggioramento dell’economia si è accelerato. Il dialogo nazionale è bloccato. La legittimità di Ortega e Murillo non esiste più.
Fin qui la versione, sintetizzata, dei fatti secondo gli «azul y blanco» (azzurro e bianco, i colori della bandiera nicaraguense), coloro che chiedono «un altro» Nicaragua. La versione del governo è opposta: dicono che quello avviato ad aprile è un vero e proprio golpe, un colpo di Stato sostenuto da Paesi stranieri e pilotato da terroristi. Anche i vescovi e i sacerdoti sarebbero, secondo questa lettura governativa, golpisti. E così pure tutte le vittime. All’inizio di agosto hanno diffuso la notizia che questo presunto golpe era stato «neutralizzato» e «tutto era tornato alla normalità».
Tre storie emblematiche Voglio condividere con voi tre storie che illustrano quello che sta succedendo in Nicaragua, affinché possiate farvi una vostra idea.
La prima. Perché Olesia Muñoz, 46 anni, è una donna così amata a Niquinohomo? Perché suona il pianoforte, il violino e la chitarra nella parrocchia di Santa Ana e canta nel coro parrocchiale. «E canta molto bene», dice la gente. Perché è delegata della Parola di Dio nella comunità El Portillo. E «porta buoni messaggi», dice la gente. Perché fa lezioni di musica «ed è una buona prof», dicono i bambini. Olesia, come tante altre persone a Niquinohomo, si è indignata per gli omicidi degli universitari e ha partecipato alle manifestazioni, portando cibo e acqua a chi difendeva i tranques. Il 15 luglio, i paramilitari sono andati a prenderla a casa dei suoi genitori. Lei non c’era. Hanno buttato giù la porta, hanno sparato a raffica contro i muri e distrutto gli strumenti. Il 31 luglio l’hanno trovata e arrestata. Olesia è apparsa nei canali televisivi, proprietà della famiglia Ortega, ammanettata. «La Polizia presenta una leader del gruppo terrorista», riferiva la notizia. Secondo l’accusa, il gruppo del quale era a capo Olesia avrebbe commesso omicidi, incendi, rapimenti…
La seconda. Un giorno di luglio, il personale dell’ospedale pubblico di Jinotega, al nord di Nicaragua, ha collocato un fiocco nero sulle porte del reparto di chirurgia. Il figlio di Mirtha, tecnica di chirurgia, era stato ammazzato la notte precedente dai paramilitari arrivati in città sparando a casaccio per la cosiddetta operación limpieza (operazione pulizia). Ma la vicedirettrice (dipendente pubblica e sostenitrice di Ortega) dell’ospedale, appena l’ha visto l’ha fatto togliere. Tra i dipendenti pubblici alcuni sostengono il governo per non perdere il lavoro; altri sanno che, in caso contrario, le loro famiglie «pagherebbero». Ma ci sono anche quelli che hanno fatto del sostegno a Ortega e Murillo una specie di «culto».
Mirtha non ha avuto soltanto quel «no» al suo lutto. I paramilitari, che in genere si fermano per un tempo nel territorio che hanno «pulito», quasi fossero un esercito di occupazione, non hanno permesso a nessuno di portare il pane alla veglia di suo figlio. È un dolore grande per una madre: in Nicaragua non possono mancare pane e caffè durante la veglia di un defunto.
Molti colleghi di lavoro di Mirtha l’hanno accompagnata a seppellire suo figlio. Il vescovo di Jinotega, Carlos Herrera, religioso francescano, ha presieduto il funerale. Stava consigliando agli studenti delle scuole secondarie di proteggersi per non essere presi dai paramilitari, quando questi ultimi lo hanno interrotto. Sono arrivati sparando, per disperdere quanti stavano salutando il ragazzo ucciso. Mirtha non ha avuto neanche il tempo di togliere i fiori che suo figlio aveva nella bara e che lei voleva conservare.
La terza. A luglio mi sono arrivati due messaggi di un amico di Monimbó, un giovane che vuole diventare francescano e si sta formando in Costa Rica. Monimbó, il quartiere indigeno di Masaya, fu negli anni ’70 bastione della lotta contro la dittatura di Somoza e oggi è bastione della lotta contro la dittatura di Ortega. Il suo primo messaggio mi è giunto dopo una delle limpiezas per distruggere le decine di barricate costruite nel quartiere: «Ieri si è accentuata la mia impotenza per non essere nella terra che mi partorì. Sono riuscito a parlare con mio padre. Mi ha raccontato che è vivo e non sa il perché. Hanno imprigionato due cognati e un cugino. Hanno ucciso tre vicini (...), ci sono molti feriti, altri sono fuggiti e quelli che sono rimasti a casa sono sconvolti per la carneficina di ieri. I CPC hanno pubblicato liste di tutti quelli che hanno sostenuto la causa…». Un aspetto terribile dell’azione terroristica di Ortega e Murillo è stato infatti trasformare la gente dei CPC (Consigli del Potere Cittadino) in delatori dei propri vicini, che vengono così denunciati e consegnati per aver collaborato alla «causa».Due giorni dopo quel primo messaggio, e dopo la limpieza guidata da 3 mila tra poliziotti e paramilitari, ho ricevuto un altro messaggio dal mio amico: «Hanno colpito la mia famiglia. Uno dei miei due cognati scomparsi è stato ritrovato all’obitorio di Managua. L’hanno torturato, gli hanno tagliato la lingua, gli hanno tolto le unghie. Lui non aveva partecipato a nessuna barricata. L’hanno ucciso per il piacere di uccidere. Sua moglie, la sorella a cui voglio più bene, ora è rimasta vedova e con due figli piccoli. Sono distrutto».
Questo è quello che succede in Nicaragua: è distrutto. Vivo da mesi ascoltando racconti come questi. Vedere il popolo nicaraguense svegliarsi, dopo anni di ingiustizie, mi aveva dato speranza. Ma la risposta repressiva mi ha lasciato attonita per il livello di crudeltà. Non ho mai pianto così tanto. Per quello che sta succedendo oggi e per il futuro.
(Traduzione di Monica Johé)