Non ci sono più i disabili di una volta

Disabilità e adultità sono una responsabilità collettiva. Perché, come direbbe von Hofmannsthal, «Tutto ciò che è creduto esiste, e soltanto questo».
16 Marzo 2022 | di

«Non ci sono più i disabili di una volta...». Come mai, vi starete chiedendo, faccio un’affermazione così provocatoria, a tratti quasi nostalgica? In realtà si tratta di un gioco, complice un «lapsus» nato all’interno di un’intervista che Carlo Lepri, psicologo e docente presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’università di Genova, ha rilasciato di recente sul suo ultimo libro Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva, Erickson (2020).

All’interno di questo interessante e attuale approfondimento sul tema dell’adultità, il docente ha infatti intitolato uno dei suoi capitoli «Non ci sono più gli adulti di una volta», cosa che, per un felice errore, è stata interpretata dalla sua interlocutrice con la frase di cui sopra. Niente di più azzeccato con il titolo, anche a detta del professore, per entrare nel merito della questione e riconoscere, tanto per cominciare, che la disabilità, esattamente come l’adultità, è un concetto in evoluzione.

La disabilità oggi, ce lo dimostrano i continui assestamenti della Convenzione Onu dei Diritti delle persone con disabilità, è sempre più concepita in relazione all’ambiente che la circonda. Insomma, la disabilità, ci ricorda Lepri, è, a tutti gli effetti, un fenomeno culturale. L’adultità non è da meno. Esistono ancora dei riti di passaggio che definiscono l’ingresso in questa fase di vita? Una volta la società ci «imponeva» delle scelte obbligate, dal servizio militare al matrimonio e in mezzo c’era il posto fisso. Ora, benché non manchino le criticità, non è più così. L’adultità è un concetto permeabile, meno definibile, ma allo stesso tempo, se vogliamo, un po’ più libero.

In questo contesto composito, in cui i precedenti modelli stanno attraversando una propria evoluzione, si colloca anche la persona con disabilità, dalla prima infanzia fino alla vecchiaia. Diventare grandi dunque, anche per le persone disabili, non è un fatto d’età ma soprattutto di esperienze, di scambi, del modo in cui ci è data o meno la possibilità di costruire la nostra identità.

Ed è proprio qui che si concentra il libro dello psicologo, il quale ci spiega come, fin dai primissimi anni di vita, il bambino, disabile e non, inizia a concepire la possibilità di diventare adulto. Lo fa, ovviamente, attraverso lo sguardo di chi gli è attorno, dei genitori e dei contesti educativi e sociali, che devono essere i primi a credere in lui e a trasmettergli questa possibilità.

Non c’è nulla di più sociale, infatti, ne sono convinto, del processo di costruzione dell’identità. Avere delle ambizioni ed essere capaci di proiettarsi nel futuro si può fare solo se qualcuno ha «pensato un sogno» per noi. Ciò non significa che noi dobbiamo rispondere esattamente a quell’immagine: ci basta sentire di «poter essere» per sé e per gli altri.

Una disabilità intellettiva ovviamente complica la situazione, generando un’inevitabile dipendenza nel rispecchiamento, che, tuttavia, grazie soprattutto all’allenamento al riconoscersi in un ruolo, nel lavoro e nel privato, può essere smussata. Disabilità e adultità, quindi, sono una responsabilità collettiva, perché, ricorda Lepri, come direbbe Hugo von Hofmannsthal: «Tutto ciò che è creduto esiste, e soltanto questo».

E voi, come vi allenate a diventare grandi? Scrivete a claudio@accaparlante.it oppure sulle mie pagine Facebook e Instagram.

 

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Data di aggiornamento: 16 Marzo 2022
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