Il maestro degli italiani
Da ragazzo Alberto Manzi sognava di diventare capitano di lungo corso. Per questo studiò sia all’Istituto Nautico che alle Magistrali: «Non avevo alcuna intenzione di fare il maestro, come non avevo alcuna intenzione di fare la guerra e ho finito per fare l’uno e l’altra – confessò –. Facendo la guerra, poi, ho scoperto che tante cose per cui si pensava che valesse la pena vivere erano solo delle falsità». La sua vita, anzi la sua missione, sarebbe stata la scuola. Insegnò per anni, ai ragazzi difficili del carcere minorile così come agli indios e ai campesinos dell’America Latina, dove tornava ogni estate. Si impegnò costantemente per i diritti soprattutto di coloro che rischiavano di rimanere ai margini. E grazie alla tv, che allora muoveva i primi passi, Manzi divenne «il maestro degli italiani».
Tra il 1960 e il 1968, il suo programma Non è mai troppo tardi fu uno straordinario veicolo di alfabetizzazione: un milione e mezzo di adulti imparò a leggere e a scrivere, conseguì la licenza elementare e acquisì le basi per una vita migliore, fondata sull’istruzione ma soprattutto sulla consapevolezza. Secondo Manzi, «apprendere per tutta la vita era qualcosa che andava garantito, perché solo così l’essere umano poteva tracciare un suo percorso. Metteva al centro la “comunità” nella quale ognuno aveva diritto di parola per poter contribuire a definire le soluzioni migliori. Metteva al centro l’essere umano: nessuno escluso», fa notare Alessandra Falconi, responsabile del Centro Alberto Manzi nato a Bologna (presso l’Assemblea legislativa della Regione Emilia Romagna), che custodisce l’archivio del maestro e realizza progetti didattici e preziose attività di formazione.
«Quella di Alberto Manzi si presenta come una delle personalità più ricche e significative della pedagogia italiana contemporanea: coetaneo di Mario Lodi e don Lorenzo Milani, anch’egli ha fatto della didattica e della comunicazione il proprio campo di ricerca, in una scuola rivolta soprattutto agli ultimi», ha scritto il professor Roberto Farnè dell’Università di Bologna, che nel 1997 realizzò l’ultima intervista a Manzi, ripubblicata dalle edizioni Dehoniane.
Passione insegnamento
Alberto Manzi, romano, classe 1924, iniziò a insegnare giovanissimo: finita la guerra, lo «spedirono» a far lezione ai ragazzi detenuti al «Gabelli», che inizialmente lo scambiarono per uno di loro e lo presero a pugni. Nonostante le resistenze, riuscì a rompere il «muro» di quegli allievi complicati, coinvolgendoli nella stesura di un giornale. «Chi non sapeva scrivere imparava con l’aiuto del compagno», disse. La storia di Grogh, un castoro in cerca di libertà, che era l’ossatura del giornalino, divenne poi il primo libro per ragazzi del maestro Manzi, autore saggio e generoso: Orzowei è stato il suo romanzo più famoso e pluripremiato.
«Tre immagini accompagnano i ricordi della mia infanzia con papà – ci racconta il figlio Massimo Manzi, oggi 71enne –: i libri che erano sempre con lui, la macchina per scrivere che sentivo ticchettare nel tardo pomeriggio o di sera, e i disegni, tanti disegni, schizzi, scarabocchi, fogli ovunque. Quei disegni spesso erano la chiave per entrare nel mondo del bambino, stimolare la curiosità, la discussione e quindi l’apprendimento. Nella pedagogia di mio padre non c’è mai stato uno scarto tra teoria e pratica. A casa era come a scuola. È sempre stato un maestro del fare».
Proprio con un disegno si aprivano sempre le «lezioni» di Non è mai troppo tardi: quando lo convocarono per il provino alla Rai, Alberto Manzi stracciò il copione che gli avevano consegnato, chiese dei fogli di carta da pacchi e ne attaccò alcuni al muro, poi con un gesso iniziò a disegnare. «Se in tv fossi rimasto fermo a parlare per venti minuti avrei addormentato tutti – rivelò –. Invece mi bastava schizzare qualcosa, meglio se incomprensibile all’inizio: chi stava a guardare era incuriosito dal disegno che prendeva forma e nel frattempo seguiva il mio discorso».
Il Ministero della Pubblica Istruzione, in accordo con la Rai, creò duemila posti dove le persone potevano riunirsi per seguire la trasmissione, e un insegnante «in loco» le aiutava: fu una grande, meritoria operazione educativa nell’Italia del boom economico, e la premiò anche l’Unesco. Il modello venne riprodotto in più di settanta Paesi. Una volta terminata questa esperienza televisiva, nel 1968, Manzi tornò alle aule tradizionali, che sicuramente preferiva, anche se in seguito continuò a collaborare con la Rai. Lasciò l’insegnamento nel 1988, all’età della pensione: dal 1995 fino alla sua scomparsa, nel ’97, il suo impegno continuò come sindaco di Pitigliano (Grosseto).
Imparare a imparare
Per il maestro Manzi, in tv come a scuola, era fondamentale generare una tensione cognitiva nei ragazzi: «Partiva dai loro interessi, dalle esperienze concrete, quotidiane, e da ciò che sta sotto gli occhi (a volte non visto) per trasformarlo in scoperta e apprendimento – rimarcano al Centro Manzi di Bologna –. Imparare a imparare, prendersi il gusto della curiosità, fare relazioni tra le cose». «In ogni sua azione era ben presente il suo principio, il suo messaggio profondo: “Ogni altro sono io” – spiega Giulia Manzi, la figlia più giovane –. Siamo tutti parte dell’umanità, e quindi io faccio qualcosa per te, perché tu sei me: una piena identificazione con la dignità dell’altro».
Il rapporto tra insegnante e allievo, per lui, non era mai a senso unico: «Voleva proprio educare i ragazzi a pensare e a interrogarsi su ciò che ci circonda. Si creava un vero interscambio», prosegue Giulia Manzi. «La grande empatia di papà non era rivolta soltanto agli uomini, ma a tutta la natura, agli animali, all’ambiente – aggiunge Massimo Manzi –. Quando ero bambino, tante volte ci ha portato a casa ranocchie, merli, piccoli rettili: la natura era una fonte di osservazione, di discussione e di apprendimento. E se rispetti l’uomo, devi rispettare anche la natura».
Il professor Farnè ha annotato che «i temi della libertà e della solidarietà, dell’avversione per ogni forma di violenza e per il razzismo, del rapporto tra l’uomo e il proprio ambiente» hanno sempre caratterizzato l’attività didattica del maestro Manzi. «Dei programmi me ne sono sempre un po’ infischiato – ammetteva nell’ultima intervista –. I programmi dovrebbero dare l’indicazione degli obiettivi: come arrivarci è compito dell’insegnante». E non fu sempre condiscendente: «Per otto volte ho dovuto affrontare il Consiglio di disciplina».
Quando vennero introdotte le schede di valutazione, rifiutò di dare i giudizi su alcuni ragazzi difficili che aveva in classe, poi su tutte le schede appose un timbro, «Fa quel che può. Quel che non può, non fa», e scrisse al ministro per enunciare le sue ragioni: «La valutazione è sempre legata a una situazione particolare dell’alunno. Alla fine dell’anno basterebbe dire per ogni ragazzo se sia pronto per passare alla classe superiore». Fu certamente un innovatore, e per certi versi un «rivoluzionario», come egli stesso si definì.
Ai suoi ragazzi di quinta, alla fine del ciclo delle scuole elementari, consegnava ogni anno una lettera: «Non rinunciate mai, per nessun motivo, ad essere voi stessi... Andate avanti serenamente, con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti, con onestà, onestà e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo e voi dovete ridarla, e intelligenza, e ancora e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa riuscire ad amare. Realizzate tutto ciò, ed io sarò sempre in voi, con voi».
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