Notre Dame siamo tutti noi
La foto della cattedrale di Notre Dame di Parigi avvolta da una nube di fumo resterà per sempre nella memoria di questa generazione, così come lo scatto notturno dove il rosseggiare delle travi ancora in brace retro-illuminava il rosone frontale della chiesa, in un’immagine al contempo terrificante e bellissima. Non è il primo battesimo di fuoco a cui la chiesa madre di Francia sopravvive: gli incendi erano un evento tutt’altro che infrequente nei tempi passati e altre cattedrali europee hanno sperimentato persino più volte l’esperienza dolorosa di rinascere dalle proprie ceneri. Di quegli eventi però non abbiamo ricordo se non nei documenti, perché la civiltà del canto gregoriano e dell’arco a sesto acuto è un altro tempo rispetto al nostro oggi, in cui sono le immagini dei fotografi e le riprese dei cineoperatori a cristallizzare la memoria dei fatti e talvolta, producendo permanenza, a diventare più efficaci dei fatti stessi.
L’incendio è durato dieci ore e a molti – con a disposizione le tecnologie avanzatissime del 2019 – sono sembrate troppe, ma la causa era nella delicatezza della struttura, che non poteva essere investita dalla violenza dell’acqua a caduta di strumenti come i canadair, pena il causarle danni maggiori di quelli che le stava facendo il fuoco. A dispetto della spettacolarità catastrofica delle immagini, quello che rimane del rogo della chiesa è solo la perdita – grave ma non irreparabile – della guglia ottocentesca. Il resto, cioè la struttura portante, gran parte delle opere d’arte e le reliquie, sono illese e in sicurezza e quel che più importa è che nel salvataggio della cattedrale nessuno ha perso la vita. La ricostruzione è stata subito annunciata e diversi ricchi mecenati si sono fatti avanti per finanziarla, a rassicurazione del fatto che quell’antica fenice sarà cenere per un tempo molto breve.
Eppure, durante le ventiquattro ore successive all’inizio dell’incendio, la comunicazione dell’avvenimento ha avuto toni a tratti più alti delle fiamme stesse e abbiamo letto sui giornali titoli come «La fine di una civiltà», «La Waterloo dell’idea di una nazione», «L’11 settembre dell’Europa». L’accostamento ai fatti del terrorismo è quanto mai significativo, perché l’incendio della cattedrale francese è un fatto colposo, probabilmente sorto a causa dei lavori di restauro in corso, e non ha niente a che fare con un attentato, tanto meno con uno così simbolico come quello alle Torri gemelle, dove morirono quasi tremila persone. Perché mai i due avvenimenti sono stati associati? Per quale ragione un comune incendio – benché accaduto a un non comune edificio – è stato letto come un attacco violento, un rogo culturale, l’evento conclusivo dell’agonia di un’identità collettiva?
I social network, da tempo osservatorio degli umori delle masse a disposizione di sociologi e politici, in diretta corrispondenza con le immagini più forti dell’incendio hanno registrato in Europa picchi di sentimenti come paura, insicurezza e rabbia, emozioni che rivelano qualcosa di più del dispiacere per i danni a un monumento. Al di là dei titoli enfatici dei media, esagerati alla luce delle conseguenze effettive, la sensazione era che i bastioni di Notre Dame minacciati dalle fiamme dicessero davvero qualcosa di noi e della nostra fragilità davanti al mutamento storico in cui siamo immersi. La cattedrale come simbolo della grandezza della comunità degli europei è un’idea confortevole, ma non realistica, perché non è una comunità forte quella che vive in un continente anagraficamente invecchiato e lo abita piena di paura del cambiamento, pronta a strutturare i suoi egoismi in forma di muro, filo spinato e porti chiusi verso chi arriva disperato chiedendo aiuto.
Il cuore dell’Europa che ha eretto Notre Dame è sorto sugli scambi, sugli incontri e sulle contaminazioni culturali tra le popolazioni che oggi se ne sentono parte. Quella commistione di differenze è stata la trave, la pietra e il vetro con cui ci siamo eretti e l’incendio che sta tirando giù quella forza iniziale non viene dall’esterno: è la nostra stessa paura a divorare le travi di quel che siamo stati e a minare la stabilità della struttura comunitaria in cui ci riconosciamo. Nulla in contrario dunque che Notre Dame in fiamme ci emozioni per il suo portato metaforico di architettura sociale, ma non perché la cristianità e l’europeità siano minacciate dalla spinta delle migrazioni e dalla forza di altri sistemi simbolici. La metafora sociale, se c’è, è nella ricostruzione che deve avvenire con la ricerca di materiali innovativi e più sicuri e con il concorso di intelligenze architettoniche nuove, in grado di ripensare quel che siamo stati e immaginare quello che ancora non siamo stati capaci di essere, imbrigliati in strutture non più all’altezza del presente. La possibilità di rinascere passa dal Mediterraneo e dalla capacità dell’Europa di costruire un tetto dove anche chi arriva povero e ferito possa trovare riparo. È nell’acqua di quel mare, non nel fuoco del nostro incendio, che si gioca il cuore della civiltà europea.
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