Patto di verità
Siamo nel 1968, l’anno in cui vengono assassinati Martin Luther King e Robert «Bob» Kennedy. King lottava contro la segregazione razziale e le disparità salariali. Bob aveva anche lui «un sogno»: un’America più libera ed eguale. Sapeva di sognare cose che non c’erano ancora state, ma si chiedeva: «Perché no?». Nell’agosto dello stesso anno c’è la convention a Chicago del partito democratico Usa. E ci sono sette libere associazioni che pretendono di manifestare proprio davanti all’hotel Hilton, la sede del congresso politico. Protestano contro la guerra nel Vietnam.
Ma il sindaco vieta ogni manifestazione, promette il pugno duro e attua una specie di stato di polizia. Vengono schierate le forze dell’ordine e la guardia nazionale in assetto anti sommossa e accade il peggio. Di fronte all’interdizione, gli animi si scaldano e la rabbia delle masse travolge anche le minoranze più pacifiche. Vi sono scontri, sangue, lacrimogeni, pestaggi, feriti, arresti. Come spesso accade ai film americani, il vero focus narrativo è l’aula giudiziaria.
Il titolo del film Il processo ai Chicago 7 (Usa 2020), di Aaron Sorkin, si riferisce esplicitamente al trial, ossia al processo e al suo rito. Parliamo di celebrazione di un rito, perché c’è qualcosa di sacro nel dare a ciascuno il suo, nell’ascoltare testimoni (che giurano sulla Bibbia di dire la verità, riferendo ciò che i loro occhi hanno visto) e nella deferenza verso la Corte (chiunque la rappresenti). Si tratta di convincere la giuria. Gli avvocati difensori, da un lato, e, dall’altro, il giovane, dubbioso procuratore federale, ingaggiano un agone retorico, in cui si scontrano due opposte ricostruzioni storiche.
Ogni volta che i cittadini americani trovano scritto sul banco del giudice «Fiat iustitia, pereat mundus» («Sia fatta giustizia, dovesse pure cascare il mondo»), essi sentono risuonare l’eco del primo patto, della covenant (alleanza, convenzione), che legò le diverse minoranze bianche a una comune promessa, quel giorno del 1776 in cui fu proclamata l’indipendenza degli Stati Uniti d’America. Questa miracolosa evoluzione conquista lo spettatore cinematografico. Nel fare giustizia, si riscrive la legge. Il significato della vecchia norma va inciso di nuovo nel cuore. Le sentenze sono capitoli di un unico racconto composto a più mani e in tempi diversi.
Raccontare per giudicare
Si svelano così due verità. La prima è che per giudicare occorre raccontare. In questa linea, andare al cinema è una pratica morale e la narrativa è una palestra di empatia civile e di amministrazione della giustizia. Non c’è nessuna immagine statica di repertorio che possa dimostrare in modo oggettivo e definitivo il senso di uno scontro. Bisogna immaginare un’intera trama e inventare una parabola credibile, che abiliti a vedere, a legare assieme gli eventi secondo un prima e un dopo, e a capire così la vicenda.
Seconda conseguenza è che l’occhio di chi guarda (regista, cameraman o spettatore) non è mai spassionato, intellettualmente freddo o anaffettivo, ma è carico di emozioni. Così avviene nel film anche per il giudice, un magistrato antipatico, cinico e aggressivo, che pretende di trincerarsi dietro un rispetto farisaico delle regole, ma che trasuda un violento pregiudizio conformista e che, quindi, tradisce il suo ruolo «imparziale» proprio perché non riconosce e non esamina le proprie passionali intemperanze autoritarie. I «7 di Chicago» (una definizione che suona apocalittica) invece non si nascondono, portano in aula le loro speranze e delusioni, gioie e ferite.
Lasciamo agli spettatori il piacere di godersi il colpo di scena finale. Chi fu davvero a provocare e a innescare i disordini? Che cosa avevano documentato le indagini governative? Non ci si lava le mani davanti a un giusto sofferente, si ha il dovere morale di testimoniare la verità. L’intolleranza va smascherata nella satira, facendola incespicare proprio nella sua grossolana violenza.
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