Il seme della violenza

Si insinua in una qualsiasi tranquilla comunità e genera emarginazione, rabbia, violenza. Come quella di cui è stato vittima Matthew Shepard. Lo spiega lo spettacolo teatrale «Il seme della violenza», al Teatro dell’Elfo di Milano, covid permettendo.
23 Febbraio 2021 | di

Atto primo

Laramie, Wyoming, Stati Uniti. 6 ottobre 1998. È sera. In un locale della cittadina dell’estremo Ovest degli States (sì, proprio il Far West dei cowboy…), un ragazzo sta bevendo da solo una birra. Si chiama Matthew Shepard, per tutti Matt. È biondo, piccolo di statura, mingherlino. Ha i tratti del volto affilati e delicati, gli occhi azzurri un po’ infossati, lo sguardo sfuggente dei timidi. Ha 21 anni, ma sembra più giovane. Due ragazzi gli si avvicinano. Sono Aaron McKinney e Russel Henderson. Parlottano per un po’, tranquillamente, poi i tre escono insieme dal locale. E qui si ferma il racconto del barista che ha descritto la scena appena narrata. 

Che cosa succede in seguito nessuno lo può raccontare, a parole. Perché è solo un corpo straziato a descriverlo. Il corpo di Matthew, che un passante trova fortunosamente il mattino dopo legato a una staccionata, agonizzante. Il cranio è fracassato, reso informe da novanta colpi inferti con il calcio di una pistola. Il volto è tumefatto e ricoperto di sangue, tranne che per due rivoli bianchi tracciati dalle lacrime che si sono fatte strada in quel rosso intenso. Il passante chiama le forze dell’ordine. I poliziotti, arrivati di lì a poco, si accorgono che Matt ancora respira e lo portano d’urgenza nel locale ospedale da cui verrà trasferito subito dopo in un altro più attrezzato, a Fort Collins, in Colorado. La speranza è di riuscire a salvarlo, nonostante la violenza disumana subita, nonostante le diciotto ore passate tra la vita e la morte, al freddo della notte.Trascorrono cinque giorni da quella terribile sera, giorni di preghiera e di speranza. Ma alla fine il piccolo guerriero cessa di lottare. Il 12 ottobre Matt muore. 

I genitori, rientrati in fretta dall’Arabia Saudita, dove vivono per lavoro, sono dilaniati dal dolore e in cerca di un perché. Sono increduli. Come può essere successo? Matt era un ragazzo tranquillo, studioso, aperto al mondo. Era nato in un paese vicino a Laramie, ma aveva trascorso gran parte della sua breve vita all’estero. Aveva studiato in Svizzera, e poi aveva scelto di tornare negli States per frequentare l’università proprio a Laramie, cittadina di 25 mila abitanti, sede di un college universitario che movimenta un po’ la quiete della cittadina di provincia. Voleva formarsi per lavorare nel sociale, Matt, per aiutare chi era in difficoltà. Per difendere chi soccombe davanti a una società a volte troppo competitiva e dura. E voleva anche portare avanti una battaglia importante, quella per i diritti dei gay. Perché sì, Matthew era un giovane omosessuale, dichiaratamente omosessuale. E convinto, com’è giusto, che le sue preferenze sessuali non togliessero né aggiungessero nulla al valore della sua vita. Eppure è tutto vero: Matt ora non c’è più. 

Nei cinque giorni che Matthew trascorre tra la vita e la morte, vengono fermati e poi arrestati due giovani. Sono Aaron e Russel, gli stessi con cui lui era uscito dal locale, inconsapevole delle loro intenzioni, in quel «maledetto» 6 ottobre. Messi sotto torchio dalla polizia, i due confessano. Ma dicono che no, l’omosessualità di Matt non c’entra nulla con quanto accaduto. Che loro volevano solo rapinarlo e che la situazione gli era sfuggita di mano. Peccato che all’appello manchino 20 dollari appena, gli unici che il ragazzo aveva nel portafoglio. Si arriva al processo, dove le motivazioni del crimine vengono sondate a fondo. Si cerca di capire, di dare una spiegazione razionale a quanto accaduto. Ma le ricostruzioni dei due imputati crollano una dopo l’altra. Alla fine resta l’unica vera ragione che ha innescato la violenza: l’omosessualità di Matthew Shepard. «Nello shock e nel lutto, una cosa deve essere chiara: nel nostro Paese odio e pregiudizio non possono essere tollerati» tuona Bill Clinton dalla Casa Bianca, appena si sparge la notizia di quanto accaduto a Laramie.

Atto secondo

New York, Stati Uniti, 18 ottobre 1998. Nella sede del Tectonic Theater Project c’è fermento. Oggi si parte. Destinazione: Laramie, Wyoming. Quando Moisés Kaufman, drammaturgo e regista venezuelano che da anni vive negli Stati Uniti, fondatore della compagnia, ha spiegato agli attori la sua intenzione, non tutti lo hanno subito incondizionatamente appoggiato. Il progetto era interessante, vero. Ma sarebbe stato fattibile? Non c’è voluto molto, però, per capire che valeva la pena almeno provarci. E così tutto il gruppo oggi andrà a Laramie, sulla scena dell’omicidio di Matt. Ci andrà per cercare di capire, di comprendere non tanto perché due giovani uomini si siano trasformati in feroci assassini, ma come questo sia potuto accadere in una tranquilla cittadina. Quali dinamiche si creino in una comunità qualsiasi, così simile a tante altre della provincia statunitense, per permettere che ciò avvenga. 

Giunto a Laramie, il gruppo del Tectonic comincia a parlare con la gente. Con il tassista e il poliziotto, con il barista e il compagno di studi di Matt, con il suo professore e la sua amica, con il giudice e i medici che hanno cercato di strappare Matt alla morte, con il pastore della chiesa battista e con il parroco della locale chiesa cattolica... Sono oltre duecento le interviste raccolte. Un lavoro di documentazione onesto e privo di giudizi: solo la voglia di ascoltare, di far emergere l’origine nascosta di quello scempio, di mostrare «la banalità del male» per portarla poi in scena lanciando un monito: «Attenti! La violenza è dietro l’angolo. Se non diamo valore alle nostre parole, ai nostri gesti quotidiani, faremo della nostra superficialità la tomba di tanti Matthew, immolati sull’altare dell’omologazione, messi a tacere perché diversi. E non solo per le loro preferenze sessuali, ma perché, magari, hanno un diverso colore della pelle, differenti abitudini alimentari, perché sono donne, perché pregano un altro Dio o perché un Dio non ce l’hanno». 

Il lavoro sul campo del Tectonic Theater dura quasi un anno, un anno in cui attori e regista si spostano più volte tra New York e Laramie. In cui parlano, registrano e trascrivono i dialoghi. Due anni dopo, The Laramie Project viene portato finalmente in scena: debutta a Denver, in Colorado, ma viene rappresentato anche a Laramie. «Il testo parla del conflitto che brucia nel cuore dell’America. Ancora oggi ? ha detto Moisés Kaufman intervistato dal “Corriere della sera” nel febbraio 2020, ospite a Milano del Teatro dell’Elfo –. Matthew Shepard è stato assassinato perché era gay. Ma è stato ucciso anche perché era percepito come “effemminato”: la sua morte ha quindi a che fare con la misoginia. Veniva da una famiglia benestante: i suoi aguzzini erano poverissimi. Dunque c’entra il conflitto di classe. Studiava all’università: Henderson e McKinney non avevano nemmeno finito la scuola. Dunque c’entra l’istruzione. Laramie è un mosaico che prova a raccontare la storia e il modo di pensare di questa città. Perché il modo in cui questa città pensa è il modo in cui l’America pensa. L’America è un Pae­se in guerra con se stesso. Laramie è il risultato di questa guerra».

Atto terzo

2018, Milano, Italia. Siamo al Teatro dell’Elfo, la compagnia fondata nel 1972 da un gruppo di attori che ancora oggi costituisce l’anima artistica della cooperativa e che si caratterizza per portare sul palcoscenico testi dal forte impegno sociale. Il testo di Kaufman va ormai in scena in America da quasi vent’anni ed è diventato uno dei dieci spettacoli più rappresentati. Ferdinando Bruni (regista, attore e scenografo, fondatore e condirettore artistico, con Elio De Capitani, del Teatro dell’Elfo) e Francesco Frongia (regista di teatro, video e opera lirica) lo leggono: è amore a prima vista. La compagnia si è già cimentata con i lavori di Kaufman, di cui apprezza e condivide la visione di teatro militante, capace di dare voce alla contemporaneità mostrandone le forti contraddizioni. Si mette dunque al lavoro e decide, in accordo con l’autore, di aggiungere al titolo originale, The Laramie Project, anche Il seme della violenza

«Il titolo italiano – spiega Francesco Frongia – è tratto da una frase che rappresenta il cuore del testo». A pronunciarla è un prete cattolico, padre Roger Schmit. Intervistato da due membri del Tectonic Theatre, il sacerdote dice: «Quello che hanno fatto a Matthew è stata una violenza, ma ogni volta che ti chiamano frocio, ti fanno violenza, ogni volta che ti chiamano in tutti quei modi (…) lo capite che questa è violenza? Questo è il seme della violenza». «Il nostro parlare – sottolinea Frongia – è superficiale, spesso non ci rendiamo conto che con una battuta possiamo ferire una persona, soprattutto se questa non ha gli strumenti per difendersi. Dividiamo il genere umano in buoni e cattivi, in belli o brutti, in puliti o sporchi, e invece dovremmo imparare a valorizzare le differenze, perché la storia umana ci mostra che sono le differenze a farci progredire». 

La compagnia dell’Elfo sa che la violenza si può combattere anche su un palcoscenico. «Il teatro – continua il regista – favorisce l’introspezione perché, a differenza del cinema, mette molto più in luce gli aspetti intimi dei personaggi, illuminando al contempo l’interiorità di chi osserva. Si creano istanti di verità in cui, come diceva Bergman, un essere umano incontra un altro essere umano, e il resto non conta. Chi entra a teatro ne esce diverso, con un nuovo bagaglio di esperienza che è stato raccontato sul palcoscenico da un altro essere umano che gli assomiglia». 
Il seme della violenza – The Laramie Project doveva debuttare il 6 febbraio a Milano, se non ci fosse stata la pandemia. Lo scorso luglio è stato presentato in anteprima a Napoli, con grande successo. «Il pubblico ha capito – conclude Frongia – che quanto accaduto a Laramie potrebbe accadere anche in una delle nostre cittadine di provincia. Perché le dinamiche che si creano all’interno di gruppi che convivono sono, più o meno, sempre le stesse. Il testo non fa altro che fotografare una comunità, come si muove, come reagisce, come ha paura, come guarisce dalle ferite. Per questo è un’opera dalla forte valenza educativa».

Atto quarto

Washington D.C., Stati Uniti, 22 ottobre 2009. Congresso degli Stati Uniti. Barack Obama stringe la mano a Judy e Dennis Shepard, genitori di Matthew, ringraziandoli per il loro impegno contro ogni forma di violenza. Perché, all’indomani della morte del loro figlio, i coniugi Shepard hanno dato vita a una Fondazione, la Matthew Shepard Foundation, grazie al cui impegno, proprio nell’ottobre 2009, il Congresso ha adottato il Matthew Shepard and James Byrd, Jr. Hate Crimes Prevention Act, con il quale è stata estesa la legge contro i crimini d’odio, in vigore dal 1969 negli States, ai crimini motivati da orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. La legge prende il nome da Matthew (oltre che da James Byrd, Jr., un afro-americano barbaramente ucciso nel 1998 a Jasper, in Texas).

Se oggi l’America ha una norma che punisce duramente i crimini d’odio lo si deve anche al lavoro degli Shepard. Un lavoro di sensibilizzazione della società, ma anche un altro, più doloroso, su se stessi. Lo racconta la dichiarazione che i due leggono alla fine del processo, (riportata nel testo di Kaufman) poco prima che venga emessa la sentenza che quasi sicuramente condannerà a morte uno dei due carnefici, e che in realtà, gli salverà la vita: «Mio figlio Matthew non aveva l’aspetto di un vincente. Era abbastanza scoordinato e ha portato l’apparecchio da quando aveva 13 anni fino al giorno in cui è morto. Tuttavia, nella sua decisamente troppo breve vita ha dimostrato di essere un vincente. Il 6 ottobre 1998 mio figlio ha provato a mostrare al mondo che poteva vincere di nuovo. Il 12 ottobre 1998 il mio primogenito e il mio eroe, ha perso. Il 12 ottobre 1998 il mio primogenito e il mio eroe è morto, cinquanta giorni prima del suo ventiduesimo compleanno. (...) Chi sarebbe potuto diventare? Come avrebbe potuto cambiare il suo pezzetto di mondo per renderlo migliore?».

«Matt ufficialmente è morto in un ospedale a Fort Collins, in Colorado. In realtà è morto nei dintorni di Laramie, legato a una staccionata. Lei, signor McKinney, con il suo amico, il signor Henderson, lo ha lasciato là fuori da solo, ma non era solo. C’erano i suoi amici di una vita con lui, amici che erano cresciuti con lui. Il primo era il cielo, il bellissimo cielo notturno e poi la luna e le stelle che guardavamo sempre insieme con il telescopio. Poi è arrivato il giorno a splendere su di lui. E in tutto questo respirava il profumo dei pini dai campi innevati. Ha sentito il vento, il vento che nel Wyoming è sempre presente, l’ha sentito per l’ultima volta. E poi aveva un altro amico con lui, aveva Dio. Mi sento meglio se penso che non era da solo. Il pestaggio, il ricovero e il funerale di Matt hanno richiamato l’attenzione globale sull’odio. Io penso che dal male possa emergere il bene».

«La gente ha detto che quel che è troppo è troppo. Mi manca mio figlio, ma sono orgoglioso di poter dire che è mio figlio. (…) Non desidererei nulla di meglio che vederla morire, signor McKinney. Tuttavia è tempo che si dia inizio al processo di guarigione. Che si mostri misericordia verso qualcuno che si è rifiutato di mostrare alcuna misericordia. Signor McKinney, le concederò la vita, per quanto mi costi farlo, grazie a Matthew. Ogni volta che festeggerà Natale, un compleanno, il Giorno dell’Indipendenza, si ricordi che Matt non lo potrà fare. Ogni volta che si sveglierà nella sua cella, si ricordi che quella notte ha avuto la possibilità e la capacità di fermarsi. (…) Signor McKinney, le concedo la vita in memoria di qualcuno che non vive più. Possa avere una lunga vita, e possa ringraziare Matthew per questo, ogni giorno».

 

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Data di aggiornamento: 26 Febbraio 2021
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