Prigioniero di un’idea
Un imam integralista persuade il 13enne Ahmed che la sua insegnante di arabo ha tradito la fede autentica. Ahmed venera la memoria di un cugino morto per la causa islamica. L’indottrinamento estremista, il desiderio di riscatto, l’orgoglio etnico, l’intransigente osservanza dei costumi religiosi inducono il ragazzo a pianificare un gesto cruento…
Lo spettatore è sbigottito davanti all’implacabile resoconto offerto dalla macchina da presa, che segue passo passo il protagonista. Possibile che Ahmed non cambi idea? Non c’è uno scatto di libertà dal condizionamento ideologico? Non c’è incertezza, non c’è contraddittorio in quella coscienza morale? Come può il fanatismo congelare una mente giovane, esplorativa, sanamente trasgressiva?
I fratelli Dardenne colgono un punto essenziale della formazione adolescenziale: ogni ragazzo non mette semplicemente alla prova diverse forme di vita, ma cerca una buona causa per cui spendersi interamente. Le singole decisioni (andare a scuola, frequentare la moschea, obbedire ai genitori, baciare un’amica) acquistano senso in una cornice più generale: trovare se stessi e decidere di se stessi, acquisire uno stile personale capace di sperare nel futuro, sfidare la sorte avversa, sognare un mondo liberato.
Per questo motivo i piccoli accorgimenti pedagogici, le tattiche psicologiche, le raccomandazioni di etichetta non fanno presa su chi cerca niente meno che alzare gli occhi al cielo, consacrare il corpo, promettersi a una lotta giusta. Se non si intercettano queste esigenze, se non si tocca questo livello comunicativo, si cade nella banalità del ritmo mondano e consumistico: una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute, come scriveva il filosofo Nietzsche. Vuole ben altro, chi prega un Dio!
La presunzione di Ahmed è quella di ingabbiare la vita entro regole precostituite: precetti alimentari, rigidi rituali di abluzione e preghiera, sospettosità verso il mondo laico. Ahmed adotta criteri di giudizio dualisti: o una cosa è tutta giusta o è tutta sbagliata, o è bianca o è nera, o c’è fedeltà alla tradizione oppure c’è tradimento sacrilego. Il fondamentalismo semplifica grossolanamente i dilemmi morali e rende ciechi davanti alle sfumature emotive, ai conflitti tra valori anche all’interno del mondo islamico, all’insegnamento prezioso che può venire da eventi imprevisti e contatti interpersonali.
I fratelli Dardenne costruiscono un film con pochi dialoghi e senza colonna sonora, un film che sembra erede del cinema muto. In effetti, siamo tutti ammutoliti, tutti contagiati dal blocco emotivo del protagonista, dalla sua delirante impazienza di iniziare subito la guerra santa, contro il parere del suo stesso fanatico maestro, che lo ammonisce: «Non è ancora il tempo del jihad», «Non siamo pronti», «Difendiamo la moschea, per ora. Proteggiamo i fratelli e le sorelle». No, per Ahmed gli infedeli e gli apostati vanno colpiti adesso. Lo sforzo (questo significa «jihad») merita una dedizione immediata.
La simpatica ragazza che alla fattoria didattica gli dà un bacio tra i fiori di campo sembra strappare Ahmed dal suo guscio. Lei lo sfida, lo provoca con dolcezza: «Non hai il coraggio di baciare. Vuoi ma non puoi!». Ma in Ahmed è più forte la paura di peccare: Ahmed pretende di convertirla all’islam.
La parola chiave del film è perdono. Tutto il montaggio è un lungo, doloroso parto di questa confessione di colpa. Ahmed sa scrivere la parola: «Ti chiedo perdono, mamma, per il dolore che ti do, ma vedrai, sarai fiera di me». Ma non percepisce la trasformazione emotiva che il perdono comporta. Chiedere di essere perdonati significa, infatti, aprire un’intimità delicata ed esigente. Significa confessare debolezza e pentimento, per essere assolti da pensieri o gesti cattivi, lavati da una macchia, addirittura per nascere una seconda volta.
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