La tartaruga del Libano
Quando, pochi giorni fa, a Tiro, città del Sud del Libano, ho scattato questa foto, ero rimasto colpito solo dalla tartaruga azzurra. Mi piaceva il suo movimento, la sua aria tranquilla. Si trovava di fianco al teatro Rivoli, riaperto lo scorso anno, dopo le devastazioni della guerra degli anni Ottanta, grazie al coraggio di un gruppo di attori. Qui si sfiorano il piccolo quartiere cristiano e la città sciita. Almeno così mi hanno raccontato.
Distratto, non avevo notato cosa la lenta tartaruga portava sulla sua corazza: c’è una chiesa, una moschea. La bandiera del paese dei cedri. Un arco romano. Il faro. La grande palma a fare ombra. Ora, che rivedo la foto, presto attenzione anche alla firma dell’autore: si chiama @nli Souheil. Passa un uomo, indifferente alla mia macchina fotografica, rimane nell’immagine. Rileggo alcune pagine di un grande libro di Robert Fisk, leggendario giornalista inglese: ha raccontato «il martirio» del Libano. Ci sono i giorni della guerra a Tiro, dell’invasione israeliana, della battaglia fra queste case, fra questi vicoli. Leggo che in città, allora, vivevano 60 mila abitanti. Erano rimasti in trecento. Sotto le bombe. Fu allora che il teatro Rivoli venne distrutto?
Oggi mi guardo attorno: siamo a un passo dal mare, c’è la programmazione degli spettacoli, i pescatori siedono davanti al porto, giocano a carte, donne velate si fanno selfie, si va al suk a mangiare ful, una crema di fave, cipolle e pomodori, il migliore del paese. La tartaruga mi appare serena: ha portato in salvo i cristiani, i musulmani, la bellezza del Libano.
Volevo dirvi: questo è il Levante del Mediterraneo, non si torna indifferenti da questa terra, da questo «luogo dell’alba». La tartaruga sembra dirmi: «Tranquillo, proteggo io, con la mia lentezza, questo Paese e la sua gente». Insh’allah, che Dio voglia.