Quando l’arte si respira ad alta quota

In Val di Fiemme, a oltre duemila metri, si snoda RespirArt, uno dei parchi d’arte più alti del mondo. In un percorso ad anello di tre chilometri, sculture e installazioni si fondono con la natura in un’opera viva soggetta a continue mutazioni.
22 Luglio 2017 | di

Leonardo e compagnia bella non ce ne vorranno. Con buona pace di Uffizi e Louvre, non c’è museo al mondo che sappia fermare il respiro come certi panorami ad alta quota. Prendiamo ad esempio quello che si gusta in Val di Fiemme, tra le Pale di San Martino e le guglie del Latemar (dal 2009 nella lista dei luoghi patrimonio naturale dell’umanità, stilata dall’Unesco). Un vero colpo agli occhi e al cuore perfetto così com’è. Eppure… se esistesse un modo per sublimarlo? Se lo devono essere chiesti Beatrice Calamari e Marco Nones quando, nel 2011, partorirono l’idea di un parco d’arte a duemila metri. È nato così RespirArt, un percorso ad anello che si snoda per tre chilometri tra i pascoli e le vette di Pampeago (TN).

Raggiungibile a piedi, attraverso un sentiero dal parcheggio della seggiovia Tresca, o a bordo della seggiovia Agnello, in pochi anni di vita il parco ha raccolto opere di artisti locali e internazionali, sculture e installazioni che, fondendosi col paesaggio e mutando con esso, offrono all’uomo l’occasione di entrare quasi in simbiosi col Creato. Quest’anno, oltre alle sedici creazioni distribuite lungo il sentiero, il RespirArt si arricchisce di altri cinque componenti (mentre scriviamo non è ancora stato svelato di che cosa si tratta). Vengono dal Trentino e dalla Calabria, dalla Germania e dalla Svizzera. E portano la firma di Reinhard Mader, Federico Seppi, Piergiorgio Doliana, Simone Carole Levy e Cosimo Allera.

Il RespirArt, tuttavia, non è solo una vetrina di arte a cielo aperto. Durante l’estate il percorso si trasforma anche in una location per concerti e manifestazioni. Come il RespirArt day (festa itinerante, arricchita di visite con gli artisti e degustazioni) in programma il 29 luglio o come i concerti che fino a settembre animano il Teatro del Latemar, prima opera che s’incontra lungo il sentiero, partendo da Baita Caserina.

Assi in larice affiancati a formare un palco e, al posto del fondale, altre tavole appoggiate le une sulle altre come Allestito tra rododendri e mirtilli, il Teatro del Latemar di Marco Nones (2012), riproduce il profilo della montagna alle sue spalle. Oltre al palco (alto 4,5 metri per 12 di lunghezza), l’autore – svizzero per nascita ma fiemmese d’adozione – ha previsto sessantatré cubi-sgabello sparsi qua e là per il pubblico. Il risultato finale è un’opera semplice, che però ha richiesto (tra sopralluoghi, progettazione e modelli) un anno di lavoro. Da questo palcoscenico mozzafiato ci incamminiamo lungo il sentiero ad anello verso l’opera successiva.

Le nuvole si addensano e tira un vento pungente mentre avvistiamo Intrecci, la scultura realizzata dalle persone disabili ospiti di Nuova casa serena, a Cognola di Trento. A prima vista questo groviglio di radici si mimetizza alla perfezione in un paesaggio così denso di irregolarità. Ogni ramo simboleggia una relazione, ogni nodo una fase della vita.

Anche se oggi a Pampeago saltellano gli ungulati e crescono i licheni, 20-25 milioni di anni fa intorno al Latemar nuotavano pesci e vegetavano le alghe. La prova ce la fornisce Giampaolo Osele, architetto- urbanista di Lavarone (TN). Nella sua opera C’era una volta il mare (2016), pesci fossili colorati con il bolo (terra del vicino Monte Cornon utilizzata nell’antichità dai pastori per le pitture rupestri), galleggiano su una lastra di pietra al fianco di ammoniti (molluschi cefalopodi fossili).

Non avranno tentacoli, ma semmai antenne, i due corpi conici in legno e canapa che, poco più avanti, si danno le spalle, tutti protesi a captare i raggi del sole. Ai lati di questi curiosi ricettori, chiaro rimando al corpo umano maschile e femminile (Harmonia, 2016), l’artista polacca Dorota Koziara ha sistemato due sedute in legno da cui si gode una vista privilegiata sulle Pale di San Martino e sulla Pala Santa. «Siamo quasi a quota 2.200 e io penso che questa altezza ci avvicini all’Assoluto, ma ci permetta anche di avvicinare le distanze» ha spiegato la designer che vanta esposizioni in tutto il mondo.

Dalla Polonia al Canada è un viaggio di poche centinaia di metri. L’opera successiva, Siamo tutti connessi, è una scultura in legno di cedro firmata da Gordon Dick, indiano-canadese fondatore della Ahtsik Native Art Gallery, nonché strenuo difensore della cultura tribale e dell’auto-sostentamento. «Mio nonno mi ha insegnato a prendere solo lo stretto necessario e a ringraziare per ogni cosa che la natura mi offre – ha spiegato Dick nel 2014 –. Siamo inevitabilmente connessi alla natura, ma per comprenderlo dobbia mo smettere di correre».

Come la composizione di Dick, anche Ouverture di Aldo Pallaro (2015) costringe il visitatore a rallentare il passo per capire. Cosa mai vorrà significare un albero nudo tagliato a metà in verticale e farcito con due lastre specchiate? L’energia e la bellezza che la natura irradia sono un patrimonio da custodire e riflettere ai posteri. Parola di un padovano che scolpisce il legno da oltre mezzo secolo.

Al legno si è affidato pure il tedesco Thorsten Schütt per Valanga di bolle di pensieri. Sbozzate con la motosega, fatte rotolare e poi abbandonate alla rinfusa sul prato come biglie sulla spiaggia, le sfere in larice dell’artista costituiscono un suggestivo esempio di land art. «Ogni volta che scolpisco una sfera – spiegava l’artista nel 2012 – quasi sempre penso a una persona, a una conversazione, a una situazione o al panorama che vedo».

Ma vedere, al RespirArt, non è semplicemente una questione meccanica. Lo sa bene Luca Prosser, di Volano (TN), che in Vedo non vedo (2016) gioca con acciaio inox, corten e ferro, dando forma a uno sguardo autentico. Quando l’animo è maturo, sembra voler dire il maestro, anche il più piccolo dettaglio può commuovere. Sulla stessa lunghezza d’onda è Olga Ziemska, statunitense di origini polacche che, nel 2015, con Mind’s eye ha fatto il suo ingresso nel circuito artistico italiano. Realizzata accatastando rami di nocciolo, pino cembro e betulla dentro una gabbia di ferro, questa installazione riproduce una testa umana bucata. Dal foro fanno capolino le montagne; dentro e fuori l’essere umano allo stesso tempo. «Ogni volta che si parla di natura l’uomo non si include in questa definizione. Resta un osservatore esterno – ha spiegato l’artista –. Ma l’uomo è natura». E, per la precisione, natura in movimento.

Decisi a non sconfessare questa teoria, allunghiamo il passo verso il traguardo. Prima di completare il circuito, però, veniamo rapiti da un Totem (2014) alto cinque metri che svetta da un’altura. Poggia su una base di pietra e assembla rombi, rettangoli, parallelepipedi in larice bruciato: un omaggio agli abitanti della Val di Fiemme che tanto devono, nel bene e nel male, al fuoco (le fiamme riscaldano e cucinano, ma incendiano anche le foreste e le case). Sulla cima della scultura spunta una sfera in vetro.

«Un’opera deve vivere – ha spiegato l’autore Sandro Scalet –, per questo gli ho dato un’anima. Il vetro continuerà a riflettere le mutazioni climatiche mentre la pioggia, il vento e la neve completeranno il percorso artistico. Noi artisti di RespirArt vogliamo che il tempo trasmuti i colori e le forme di ogni opera, perché la vita è trasformazione». La stessa che, nel nostro piccolo, a tour concluso, sentiamo invaderci fin nelle ossa. Se l’obiettivo del parco è accorciare le distanze tra arte, uomo e natura, tale proposito può dirsi raggiunto. Mentre ci avviamo verso l’auto, dribbliamo per un pelo una lucertolina intontita dall’ultimo raggio di sole della giornata. L’incidente scongiurato genera un improvviso compiacimento. Siamo davvero tutti interconnessi; cerchiamo solo di non dimenticarlo.

Data di aggiornamento: 22 Luglio 2017
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