18 Maggio 2016

Quando una madre non basta

In un ipotetico presente, una legge consente ai genitori di ragazzi con disturbi comportamentali di farli internare senza bisogno di particolari autorizzazioni. Mommy (Francia, Canada 2014) racconta i dilemmi di una madre e del figlio sedicenne.
Una scena del film Mommy (Francia, Canada 2014)
La'ttore Antoine-Olivier Pilon interpreta il teenager problematico Steve Després
Shayne Laverdiere

Nella storia di Diane «Die» Després (interpretata dall’attrice Anne Dorval), una madre single sui 40 anni, disoccupata, ancora vitale e piacente, coinvolta nel difficile rapporto con un figlio adolescente iperattivo, trasgressivo, a tratti violento, si incrociano due tematiche etiche. Una riguarda il ruolo genitoriale, le sue prerogative, le responsabilità e persino le colpe nel processo educativo. Chi è oggi una buona madre? E che tipo di donna diventa colei che cresce un figlio maschio? L’altra questione tocca il ruolo della psichiatria e dei sistemi psico- pedagogici: l’aggressività del ragazzo è una malattia primaria, oppure è una reazione alle separazioni subite? La contenzione fisica è veramente utile e necessaria? Gli istituti di ricovero, gli ospedali, le scuole, accolgono le diversità o le imprigionano, soffocano, irreggimentano? Il film Mommy (FR, CAN 2014, di Xavier Dolan) suggerisce risposte che hanno a che fare direttamente con i corpi dei personaggi. Il corpo di questa madre è tonico, sensuale, impulsivo, polemico. La sua bellezza seduce gli uomini, nonostante qualche chilo di troppo, e conquista ancora il ragazzo che ne è geloso, perché lei è rimasta un’adolescente che vuole divertirsi, che ambisce a emanciparsi e che desidera il mondo intero. Con la cicca in bocca, il trucco pesante, le battute al veleno.

Integro, elastico, sanguigno è anche il fisico del figlio Steve (l’attore Antoine-Olivier Pilon), scattante come una molla, irriducibile dalle camicie di forza, insofferente alle regole sociali. Alto, biondo, intuitivo, Steve «danza la vita» a un ritmo rischioso e possiede un’animalesca eleganza sugli amati skateboard.

Ciò che dovrebbe chiedere per piacere, lo pretende, lo urla. Non conosce le lacrime, trasformate in sintomi ansiosi, in comportamenti pericolosi, in gesti di sfida. Tasta i confini, urtandoli e mettendoli alla prova. Cerca prove che qualcuno è interessato a lui. Che un padre da qualche parte esiste, forte e autorevole. Definitivo. Un padre che meriti l’amore di sua madre.

Il corpo del riscatto

È un terzo corpo che si intromette tra madre e figlio e annuncia un riscatto. È il corpo delicato, soffice e rotondo di un’altra donna, un’insegnante di nome Kyla (l’attrice Suzanne Clément), la nuova vicina di casa, con marito e figlia. Kyla è ombrosa e introversa. È diventata balbuziente dopo uno stress lavorativo ed è in congedo scolastico. I due nuclei familiari fanno amicizia, si scambiano cose e vestiti, si prendono del tempo insieme e imparano reciprocamente. Quest’alleanza allarga entrambe le famiglie, modera l’irrequietezza del ragazzo, strappa Kyla dal mutismo, aiuta Diane a prender fiato. La solidarietà femminile genera un nuovo stile educativo. La lezione morale è che nessuna madre basta al suo compito. La madre, mentre dà, riceve. Riceve dal figlio, riceve dagli altri. Anzi, una madre non isterica né ossessiva riconosce di essere mancante, e mostra al bambino di aver lei stessa, a sua volta, bisogno di accudimento, di essere ancora alla ricerca di sé, di affidarsi ogni giorno alle sorprese del desiderio.

A un certo punto, in automobile, Diane fa un incantato sogno di liberazione, un sogno a occhi aperti. Lo può fare perché non è più sola, si è lasciata aiutare da un’altra mamma. Diane sogna che Steve ce l’ha fatta, studia, lavora, ha una ragazza stabile, poi una famiglia, addirittura un bambino. Il sogno annuncia una benedizione e propone un compito. Puoi prometterti a un figlio, anche se la trama della vostra vita comune non riesci a prevederla né a tesserla fino al compimento. A volte ti bloccherà la paura di fallire, il timore di essere amata sempre meno da quell’uomo che non è più il tuo bambino. L’angoscia del nuovo e una nostalgia malata potrebbero risucchiarti indietro, verso false sicurezze e antiche catene. Ma vale la pena tentare. Il vuoto, di cui Steve soffre, è così grande da esigere una doppia funzione materna (una mamma vera e un’altra adottiva), e poi esige ancora di più: che si creda in lui, nonostante le ricadute, gli errori, le bugie, le colpe di un’età difficile. Un’età posta sulla linea d’ombra, che ci avverte di dover lasciare alle spalle una stagione preziosa (come scriveva Joseph Conrad), e che ci espone allo scontento, alla noia, persino a gesti inconsulti. Steve non è pazzo, è «voluto da Dio», come tutti gli altri. Anzi è «un principe », nell’augurio di Diane. Ma come tutti gli adolescenti, genera malintesi, perché è disperatamente a caccia di ricordi («Dove sono le foto di papà? Gli somiglio?» chiede in una scena del film), di una lingua propria, di regole non farisaiche, di un’identità di genere (Steve si trucca meravigliosamente da donna), del coraggio di chiedere scusa.

Inchiodati ai dettagli

Il film Mommy ha un corpo insolito. La forma dell’inquadratura è stretta, praticamente un quadrato, e concentra lo spettatore su una o poche figure, generalmente riprese dalla vita o dal ginocchio in su. I fotogrammi diventano così dei ritratti, schiacciati da due fiancate nere, che affogano nel buio completo durante la sequenza del blackout.L’effetto estetico d’immedesimazione è potenziato, ma viene indotto un vissuto claustrofobico. Vorremmo che l’immagine si allargasse, che il gruppo sociale si aprisse all’esterno, che la logica della sopravvivenza lasciasse il posto alla speranza, a un orizzonte più vasto. Invece restiamo inchiodati a dettagli, a frammenti, a brani di carne e di racconto che dobbiamo riempire col lavoro dell’immaginazione, che dobbiamo dilatare coi nostri affetti e fecondare con le nostre visioni. E con il ricordo di altre storie: comeDietro la maschera, di Peter Bogda

novich (USA 1985), in cui un sedicenne sfigurato nel volto dall’osteite educa la propria madre (interpretata da Cher), divorziata e trasgressiva. Come La rabbia giovane (USA 1973), in cui due innamorati fuggiaschi agiscono una violenza folle, criminosa, fredda, quasi senza accorgersene, tra il miope sbigottimento degli adulti. Non si può restare semplici spettatori del film Mommy. Osservare (questa è la trappola tesa dal regista) implica recitare la parte di Kyla, entrare poco alla volta in una famiglia impossibile e solitaria, e sentirsi in debito d’affetto.

L’altro tema della pellicola riguarda la politica sanitaria e, più esattamente, la strategia morale privilegiata per affrontare il disagio, per aiutare i soggetti con personalità anti- sociale. Anche le istituzioni, del resto, sono strutture, personalità, organismi, corpi pensanti. Perché intervengono così tardi e in forme così brutali? Proprio alcuni psichiatri statunitensi hanno denunciato il rischio di diagnosticare troppo facilmente il cosiddetto «deficit di attenzione e iperattività». Ne può conseguire che la gestione delle classi scolastiche viene medicalizzata; ai ragazzi difficili è proposto un farmaco, con relativi effetti collaterali; un marketing astuto intercetta la stanchezza di insegnanti sovraccarichi di lavoro e di famiglie nucleari dall’agenda congesta. Il mito della produttività rinforza l’idea che sia fisiologico per tutti gli studenti passare cinque ore seduti dietro un banco ogni mattina.

L’immaturità e l’irrequietezza non sono una malattia e andrebbero affrontate gradualmente con tattiche educative, modificazioni ambientali, sostegno psicologico. Nel filmMommy s’immagina invece che il Canada del 2015 abbia approvato una legge secondo cui i genitori di un figlio con disturbi comportamentali possano farlo internare in un ospedale pubblico senza bisogno di altre autorizzazioni. Bastano ragioni di difficoltà economica o un generico timore di pericolosità e, con una telefonata, arrivano infermieri-vigilantes. Ma nessun centro di recupero può farcela, senza un patto con la famiglia e con gli amici: «Non siamo invincibili – confessa la direttrice di un istituto a Diane, riconsegnandole Steve –. Ora tocca a lei».

Mommy è un’espressione familiare americana che sta per «mammina». E il film si apre con le mani di un bimbo che cerca una mela. Basterebbe dire « mommy » per ricevere affetto, per godersi un frutto buono. E la paura se ne andrebbe, la violenza diverrebbe inutile. Invece Steve dice parole giuste («Siamo una squadra, mamma, e io avrò cura di te»), ma non riesce a chiedere e ottenere amore. Così deve incendiare qualcosa per placare il fuoco che gli brucia dentro. «Sei bella mammina, dammi un bacio»: questo indubbio innamoramento non trova uno spartito che lo renda comprensibile e costruttivo. Con un linguaggio febbrile, un montaggio sanguigno, una musica contagiosa, il film scotta anche sulla nostra pelle. Anche noi siamo figli ustionati dalla vita; oppure siamo madri imbarazzate della nostra impotenza. Siamo comunque impreparati all’invadente assedio di una vita accesa e indomabile, resistente a ogni ralenti, generosa e trasgressiva, provocante e scivolosa.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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