Quella volta a Baghdad
Baghdad, 1996
Nell’ospedale pediatrico che un tempo portava il nome del dittatore Saddam Hussein non si entrava per caso. Accompagnato da un funzionario del ministero degli esteri del governo iracheno, ebbi la fortuna o la sfortuna, di poter metter piede nel reparto pediatrico del maggior centro ospedaliero di Baghdad. Lo sapevo benissimo che quella visita era stata studiata e programmata come propaganda contro l’embargo.
Durante questa messinscena riservata ai giornalisti stranieri, camminavo nei lunghi corridoi del nosocomio senza mai essere perso di vista dalla «guida»: era sempre alle calcagna, anche se spesso si distraeva lasciando spazio all’obiettivo della mia fotocamera. In una di queste sue distrazioni fui avvicinato da una donna: era una giovane madre. Facendosi aiutare da un infermiere che parlava un poco d’inglese, mi supplicò di entrare nella stanza dove era ricoverato il figlio e di fargli una fotografia. Nulla di strano, se non il fatto che al piccolo, di cui non ho mai saputo il nome, rimanevano poche ore di vita.
La madre si sedette sul letto e si mise in posa con eleganza, come spesso si fa prima di una foto ricordo. Nemmeno il tempo di mettere a fuoco e la giovane donna scoppiò in un pianto a dirotto e senza fine. Scattai quella fotografia quasi come un dovere. Appena abbassai la macchina fotografica, la signora si alzò e mi abbracciò esclamando qualche parola in arabo. Capii solo shukran: grazie. Successivamente, l’infermiere che mi faceva da interprete, mi disse che la donna volle ringraziarmi per aver donato la mia attenzione al figlio, che probabilmente sarebbe morto entro qualche giorno.
Due settimane dopo ripassai in quell’ospedale: la donna e il suo bambino non c’erano più. Incontrai solo l’infermiere, che riconoscendomi si avvicinò per un saluto e per stringermi la mano. Non disse nessuna parola, mi guardò solo negli occhi. Poi abbassò il capo, si voltò e se ne andò via.
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