Reclusi
«C’è bisogno di un senso più profondo di responsabilità. Il carcere deve poter essere il luogo dove riflettere su se stessi, dove ritrovare la voglia di esistere e darsi delle regole. Chi è recluso è una persona. Chi garantisce la sicurezza deve sentirsi persona tra le persone. Luogo di detenzione e luogo di lavoro, il carcere non può essere inteso solo in chiave coercitiva». Chiunque si sia avvicinato a una struttura carceraria sa quanto queste parole – tratte dalla Prefazione al volume firmata da Nicola Gratteri (procuratore della Repubblica e capo della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro) e Antonio Nicaso (giornalista, saggista, tra i più importanti esperti al mondo di ’ndrangheta) – siano vere ma al contempo disattese. Perché il carcere oggi raramente è luogo di riflessione, di «rieducazione», come auspica la nostra Costituzione. Più spesso si è trasformato in luogo di vendetta, di giudizio inappellabile, di dolore che si somma inutilmente ad altro dolore.
Perché le cose stanno così? Come si vive in carcere? Come potrebbe diventare, per garantire un’utilità alle persone che ci vivono, che ci lavorano, ma anche all’intera società? Per rispondere a queste e a molte altre domande è appena uscito un ponderoso volume (quasi 300 pagine), scritto dalla sociologa – dirigente del Dipartimento dipendenze patologiche dell’Asl di Taranto – Anna Paola Lacatena e da Giovanni Lamarca, comandante del Reparto della Polizia penitenziaria della Casa circondariale «Carmelo Magli» del capoluogo tarantino. Reclusi è il titolo, Il carcere raccontato alle donne e agli uomini liberi l’esaustivo sottotitolo. Ma raccontato da chi? Da chi «dentro» ci sta davvero, perché in carcere ci lavora o perché ristretto, o da chi di carcere si occupa a vario titolo. Il volume è uno spaccato illuminante, uno studio analitico che vuole mostrare come la vita ristretta e le sue vicende umane appartengano, in realtà, a contesti sociali più ampi. Un compendio completo ed esaustivo sul mondo carcerario, insomma, utilissimo per entrare nella psicologia e nella vita di chi tra quelle mura è costretto a vivere, ma anche perché consente di avere una bussola fondamentale per orientarsi in una complessità spesso inimmaginabile da chi «sta fuori».
Difficile sintetizzare in poche righe i molteplici temi toccati dal volume, che intende declinare aspetti giuridici e normativi, suggerire riflessioni, raccontare spaccati di storie e vissuti, proporre domande in grado di mettere in discussione certezze, comunque opinabili. Si va così da alcuni brevi cenni sul carcere nella storia all’architettura carceraria; dall’organizzazione penitenziaria ai problemi di quanti nelle strutture carcerarie operano; dalla tossicodipendenza tra i reclusi alle difficoltà di una madre ristretta, fino alle problematiche tout court della detenzione femminile. E poi: stranieri, istruzione, attività lavorativa e ricreativa realizzabile tra le mura carcerarie finanche a giungere alle norme deontologiche per gli operatori dei media che di case di reclusione devono scrivere.
Citazione a parte meritano le interessanti appendici dedicate alla «grammatica del detenuto» o ai «piccoli espedienti utili alla donna e all’uomo in carcere» (questi ultimi tratti da un libro scritto qualche tempo fa dalle donne di Rebibbia, e pubblicato delle Edizioni dell’Asino).
Obiettivo del volume? Lo spiegano gli stessi autori: «Far conoscere un po’ di più un mondo solo apparentemente distante, provare ad avvicinare il lettore alle problematiche ad esso connesse, restituire quel profilo umano a qualcosa, che con i suoi personaggi, le sue regole, i suoi linguaggi, troppe volte diamo per scontato o per estraneo».
Infine, una piccola nota non così marginale: gli autori hanno rinunciato interamente ai proventi delle vendite del libro a favore della Casa circondariale di Taranto.