Ripartire dal deserto
La confessione sacramentale è per sant’Antonio un atto cristiano fatto di sincera accusa del peccato, di proponimento, di riparazione. Egli descrive efficacemente il deserto che si produce nello spirito umano provato sì dal peccato, ma anche dall’impoverimento della fede, dai momenti di crisi fisica e psicologica che lasciano profonde ferite, dalla perdita di un giusto orientamento esistenziale. Quando, insomma, è tutto da rifare.
Ricordo scene del crack della Lehman Brothers, che ha trasformato una crisi finanziaria in una crisi sistemica che ancora soffriamo, e gli impiegati che lasciavano la banca con i loro box di cartone contenenti tutto quello che restava a loro di quel naufragio: qualche penna, un’agenda senza più giorni, insieme forse all’ultimo sandwich.
Insomma, il niente, tutto era finito di quella super ingannevole bolla. Con tutte le variabili del caso, e in altro contesto, mi pare che anche il nostro Santo viva un momento un po’ così.
Dopo il mancato martirio per Gesù in Marocco, e dopo la tormentata navigazione del ritorno, si ritrova anch’egli col proprio box di cartone, sbigottito e incerto, nel deserto di risorse umane, mentre deve «confessare» – cioè riconoscere – al Signore il proprio doloroso limite e invocare per sé un nuovo inizio e una nuova casa che lo accolga.
In lui fame e sete di una Misericordia che lo rinfrancasse ancora, che lo riportasse a riva come capitò al profeta Giona, e come purtroppo non capita a tante persone – anche giovani – messe fuori gioco in modo imprevedibile da incidenti, malattie rare, disabilità insuperabili che bloccano in modo spietato.
Oggi con un cellulare possiamo subito chiamare aiuto, ritrovare la bussola, far partire i soccorsi, in terra o in mare. Ma se frate Antonio riuscì a vincere malattia e naufragio fu perché qualcuno si prese cura di lui: il confratello che lo accompagnava, le pietose braccia di qualche pescatore, ostelli di fortuna, forse addirittura un buon medico musulmano, e anche il valente capitano della nave che portò in qualche modo tutti in salvo.
Lui non sapeva che Francesco ad Assisi stava scrivendo, nella Regola, che i frati dovevano volersi bene e soccorrersi come una madre con suo figlio. Così la tenerezza materna di una comunità diverrà per il Santo una casa abitabile dopo tanto travaglio.
Tutti abbiamo bisogno di essere riaccolti, rigenerati con misericordia: Luca, anni di droga, mi descrive la dolcezza di una piccola figlia che lo ringrazia di esserle ora vicino e che non smette di pronunciare la parola «papà».
Liliana Segre, quando rammenta la propria esperienza nel lager nazista accanto al suo povero papà, sottolinea spesso come «i piccoli qualche volta diventano genitori che consolano e fanno rivivere i grandi». Ognuno di noi, prima o poi, si ritrova in strada con il proprio box pieno di doloroso niente, e deve chiedere di essere amato e accolto «altrove» e «ancora».
«La ferita non è interruzione di alcunché, non è contraddizione, non è scandalo, ma la trama che lega tutti gli aspetti del nostro esistere e li rende dinamici, vibranti, sorprendenti, vivi», ci ricorda il padre di spirito Timothy Radcliffe.
Mendicanti di ospitalità dopo i deserti, proprio come quando ci confessiamo.
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