Schiavi della colpa
Un affermato cardiochirurgo, tecnicamente preciso ma umanamente freddo, ha frequenti, strani incontri col figlio adolescente di un suo ex paziente, purtroppo deceduto. Le richieste del ragazzo, che invade una vita professionale ordinata ed efficiente, almeno in apparenza, sono sempre più alte e disturbano la stessa intimità familiare del medico, costretto a investire tempo, parole e denaro in una relazione, che assume i tratti di un’inverosimile nuova paternità. Che cosa è accaduto? Che cosa si nasconde dietro il volto barbuto del chirurgo? Quale blocco emotivo ha congelato il suo amore coniugale? Quale conflitto ha minato la lealtà tra colleghi? Perché i figli del medico (un bambino e una ragazza) gli riservano una sospettosa aggressività e vengono invece ambiguamente affascinati dal giovane estraneo, ammalandosi poco alla volta di paralisi agli arti, carenza d’appetito, emorragie oculari? Quale maledizione ha colpito i personaggi?
La colpa è uno degli argomenti tabù più temuti dalla società contemporanea. Se ne vorrebbe esorcizzare l’angoscia attraverso un maquillage linguistico (qualificandola come semplice «responsabilità»), distraendosi nella chiacchiera euforica (come se la festosità della vita sconsigliasse pericolosi esami di coscienza), attribuendo la colpa a un capro espiatorio auspicabilmente lontano (il diverso, il folle, lo straniero, l’antenato), diluendola in un’imputazione collettiva («facevano tutti così», «se non lo facevo io, l’avrebbe fatto un altro», «nessuno è un santo, è normale cedere alla tentazione») o delegandone la gestione a qualche specialista (uno psicologo, un personal trainer dello spirito, un guru che insegni tecniche di ascetico relax).
Un cervo va sacrificato – dice il titolo – oppure è stato ucciso (killing in originale). Ma perché? E per placare quale dio? Misericordia io voglio e non sacrifici, dice il Dio d’Israele, l’alleato che salva e onora l’alleanza. Quello stesso Dio ferma la mano di Abramo, appena prima che questi, per obbedienza, offra in olocausto il figlio Isacco. Invece nel film si respira un’aria di inesorabile condanna, che sa di Kafka e di horror metropolitano, e che incrocia il thrilling paranormale con le angosce della fantamedicina e del crimine seriale. La regia di Lanthimos confronta lo spettatore con visioni conflittuali: il buio, un’operazione chirurgica, location lussuose, squallidi bar per appuntamenti nascosti. La musica offre un’atmosfera religiosa (lo Stabat Mater di Schubert, poi Bach e Ligeti) e la contamina (attraverso brani contemporanei e pop) con una sonorità instabile, inquieta, spettrale. Le prospettive delle inquadrature sono insolite, raggelano, paralizzano.
Come nei boschi delle fiabe, i figli innocenti sono costretti a percorrere sentieri pericolosi, a diffidare dei genitori, a reclamare giustizia, a offrirsi in espiazione, a dialogare con le streghe che abitano un mondo pericoloso e nascosto. Il cervo ha un posto importante nella mitologia greca. Si pensi alla cerva di Cerinea o alla tragedia di Ifigenia, la vergine figlia del re Agamennone, il quale aveva ucciso una cerbiatta e si era vantato di essere un cacciatore più abile della dea Artemide, mandando quest’ultima in collera. Occorre sacrificare Ifigenia, ma Artemide, all’ultimo momento, ha pietà della fanciulla, la sostituisce con una magnifica cerva e la rapisce per farne la propria sacerdotessa. Fare un film sulla colpa e sul sacrificio è come offrire allo spettatore una seconda chance: contemplare l’orrore per prevenirlo, per evitare la menzogna, per ringraziare chi ha scommesso sulla nostra libertà e condivide il nostro pianto, ogni volta che riconosciamo gli errori commessi.
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