Tardelli, «Sant'Antonio con me ai Mondiali '82»

«In Spagna ho sempre tenuto un'immagine del Santo nel luogo più sicuro: dentro al parastinchi!» racconta il campione della Nazionale più amata.
18 Giugno 2020 | di

«Sette secondi. Il mio urlo è durato appena una manciata di secondi, ma son bastati per regalarmi un posto nella storia». Madrid, stadio Bernabéu, 11 luglio 1982. Finale dei Mondiali di calcio, Italia-Germania. Finisce 3-1 per gli azzurri.

Il 2-0 ha un nome: Marco Tardelli. «Il mio amico Gaetano Scirea mi passò la palla. La colpii in scivolata. Rete! Il boato di quelle 90 mila persone mi risuona ancora oggi nelle orecchie. In quel momento, come in un film, mi è passata davanti tutta la vita. La stessa sensazione che hai, almeno così si dice, quando stai per morire. Così, subito dopo il gol, ho fatto la cosa che ho sempre amato di più: correre».

Uno «schizzo» (questo pure il soprannome dato al calciatore per il suo modo di giocare) di tempo, per l’esattezza 175 fotogrammi, durante i quali Tardelli non è da solo. Mentre corre, proprio come faceva da bambino durante le scorribande in Garfagnana, dov’è nato, tra i campi sui quali la mamma aveva lavorato dalla mattina alla sera, custodisce un piccolo segreto. Ne parla con discrezione, come si fa per i racconti intimi e familiari.

«Era un’immaginetta di sant’Antonio. L’ho sempre portata con me durante i Mondiali ’82 – racconta –. La tenevo nel parastinchi, impossibile perderla ben stretta dentro alle protezioni. Perché sant’Antonio? Mio padre Domenico era un devoto. Quel santino, in verità, mi era stato regalato da una tifosa del Vicenza. Lo misi in valigia e lo portai con me». Il campione non dimentica le umili origini.

«Sono nato alla buona. Niente fiori, regali, tate. Mia madre ci ha cresciuto a pane, formaggio e concretezza. E tirate di capelli. Papà faceva l’operaio all’Anas, e aggiustava le strade. Mamma Maria era una contadina. Non avevamo una lira, eppure a noi quattro fratelli, io sono l’ultimo, non è mancato nulla. I sapori semplici, i veri valori della vita, me li hanno insegnati i miei genitori.

E poi – aggiunge – devo ringraziare padre Bianchi. Se ho iniziato ad amare il calcio è stato grazie a lui. In quegli anni il calcio si praticava negli oratori. Ultimo della classe, ero primo in campo.

In verità, non sono un grande praticante. Vado in chiesa col contagocce. Però, oggi come allora, prego. Quando sono tormentato o preoccupato, cerco di confrontarmi con Dio.

Mi è capitato di pregare anche per il calcio, lo ammetto. L’ho fatto tante volte. Quando entravo in campo mi facevo sempre il segno della croce: mi ha sempre fatto sentire protetto».

 

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Data di aggiornamento: 18 Giugno 2020
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