I pellegrini niente sanno del narcotraffico
Vado a camminare in Galizia, pellegrino per Santiago de Compostela, e Gabriella, giornalista sarda, esperta di latinoamerica, mi dice: «Occhio ai narcos!». Nascondo lo stupore, mi tengo il pensiero fino a quando non sono a un passo dall’Atlantico. Arrivo sulle coste della Galizia, sessanta chilometri a Sud di Finisterre, sponde del rio Ulla, e chiedo in giro: «Guardati attorno, ognuno qui ha parenti o amici implicati nel narcotraffico». Droga colombiana. Arriva sulle coste europee con pescherecci di altura, i piccoli narcos galiziani sono solo dei trasportatori, dei lancheros ai comandi di veloci imbarcazioni: si incaricano del viaggio fra le onde dell’oceano e la terraferma. Qui arriveranno altri a prendere i carichi e a smerciarli in Spagna, nel Nord Europa. Dove il mercato richieda. I pellegrini del Cammino di Santiago non immaginano nemmeno cosa accade attorno a loro.
«Gran parte delle attività imprenditoria della Galizia è legato al narcotraffico», spiega Nacho Carretero, giornalista de El País, autore di Fariña, libro-inchiesta sui narcos galiziani (Bompiani Editore). «Il narcotraffico è socialmente accettato», mi dice l’uomo con cui sto parlando in riva all’oceano. Per mezzo secolo, fra gli anni ’30 e gli anni ’80, del secolo scorso, qui si contrabbandavano sigarette. Non erano contrabandistas, ma contrabandeiros: una maniera «gentile» di definire un «lavoro». Alcuni di loro finirono nelle carceri spagnole, qui conobbero trafficanti colombiani. Si intesero al volo. La Galizia divenne (e lo è ancora, nonostante arresti e movimenti civili) una delle principali porta di ingresso della cocaina in Europa. «Qui nessuno spara per strada, non ci sono sfide fra bande, il narcotraffico è un affare e niente altro. E allora va bene a tutti».
Guardo i pellegrini sfilare, con i loro zaini, lungo i cammini che conducono a Santiago. Le conchiglie sono appese alle loro giacche a vento colorate.