Tra perfezioni e imperfezioni
A volte le relazioni si rompono, si lavora per ripararle ma non sempre ci si riesce. Tra la perfezione di un rapporto che rispecchia meravigliosamente la bellezza delle origini e, per chi crede, la fedeltà dell’amore di Dio per noi, e invece la devastazione di uno che finisce in male parole o nel disprezzo del mondo o peggio nella violenza, c’è tutta l’infinita gradazione dell’umano. Parlarsi. Accettare la realtà rotta. Lasciarsi con rispetto. Continuare a collaborare. Essere grati di quel che è stato. Della lunga bella storia che si è costruita. Preservare sopra ogni cosa le vite che abbiamo generato, se ci sono. Può essere un matrimonio a finire. O la fedeltà a un voto solennemente fatto davanti al mondo e a Dio. Oppure un affetto famigliare: una lite lo corrompe, una grave ingiustizia economica, una maldicenza.
Bisognerebbe riscoprire il potere tremendo del mal parlare, che la Bibbia conosce, eccome se conosce. Nei libri sapienziali le raccomandazioni sulle cattive parole sono di gran lunga più numerose di quelle che riguardano il sesso o il potere: «Le parole degli empi sono agguati sanguinari» (Pr 12,6); «Le labbra dello stolto provocano liti» (Pr 18,6); «Chi sorveglia la sua bocca conserva la vita, chi apre troppo le labbra incontra la rovina» (Pr 13,3). Ecco. Quanto il parlare comune contribuisce con il suo giudizio o pregiudizio a far finire malamente, peggio di come potrebbe, una rottura di cui si sa magari il niente con cui i social ci abbagliano, è un tema su cui applicarsi.
Ma ce n’è anche un altro, ed è che la nostra cultura si compiace di eventi estremi. Un matrimonio perfetto, perfettamente fotografato, mille volte postato, iperbolicamente commentato, un prete santo, che si prodiga per i poveri, che combatte le ingiustizie, collettivamente osannato, la famiglia perfetta, perfettamente ritratta e, anche quella, postata, alla faccia delle raccomandazioni degli esperti di bullismo, cyberbullismo, pornografia online che dicono di non farlo proprio, di mettere in mostra i piccoli. Poi, se qualcosa succede, se una vocazione va in crisi o un matrimonio finisce, resta la polvere di un gossip devastante, planetario o di piazza o di condominio o di pianerottolo. Non va bene, perché la normalità dei giorni è fatta di quel miscuglio buono di incontri belli, relazioni difficili, eventi imprevisti, dolori da superare. In parte buona, in parte no.
Questa è la vita vera, quella stessa che il Vangelo conosce bene. Infatti, da un lato ci consegna affermazioni tranchant che ci ricordano il nostro venir da Dio e a Lui andare: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Splendido cercare il bene. Dall’altra c’è l’infinita comprensione che non chiude le persone nel cerchio della legge o del giudizio, mai: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra» (Gv 8,7). È definitivo. In una frase viene accolta l’universale condizione del nostro essere uomini e donne complicati, che cercano il bene e fanno (anche) il male.
Non c’è niente di cristiano nell’assecondare il mito scintillante della perfezione, sia che riguardi i rapporti sia che riguardi la morale. È chiaro che oggi una posizione di reciproca comprensione verso il buono e l’inafferrabile oscurità di cui siamo portatori non fa notizia e non crea quell’identità furiosa che la politica sembra inseguire in modo sciagurato. Ma questo è l’annuncio: che c’è posto per tutti, niente va perduto, nessuna imperfezione ci condanna. Quando c’è l’amore, nessuna imperfezione ci condanna.
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