Abbraccio, segno di rinascita
Inizi di marzo 2020, un saluto all’aeroporto, la naturalezza dell’abbraccio. Malinconia per il distacco, allegria per la promessa di ritrovarci entro pochi mesi. Un presente e un futuro, questo oramai lo sappiamo da ben più di un anno, che ci sono stati negati per un tempo infinito. Da allora, non ci siamo più rivisti, mille speranze lungo le onde delle telefonate. Nessuno avrebbe mai immaginato che, per tornare ad abbracciarsi, avremmo dovuto attendere, fra le altre autorizzazioni, una conferenza stampa del premier britannico Boris Johnson.
Non so nemmeno come raccontarla questa storia: è avvenuta, è stata inevitabile e, così, da un anno e mezzo non ci abbracciamo. Ho anche pensato: non è così vero per tutti, in molti avranno contravvenuto a questa regola (era – è – una regola? O un consiglio severo? O una paura?); i calciatori hanno continuato ad abbracciarsi e spero che lo abbia fatto anche chi si vuole bene.
Ma io ho vissuto al Sud e, prima di quel marzo, ogni volta che uscivo di casa per passeggiare lungo il corso dovevo calcolare il tempo necessario per gli abbracci. Per i baci sulla guancia. Era il gesto della comunità. Poi il rito si è interrotto. Il patto di fratellanza («Non posso farti correre un rischio») è cambiato: stiamo lontani, mimiamo un saluto, teniamoci a distanza. Mi mancano gli abbracci. La pandemia ci ha definitivamente cambiati? Oppure, un giorno, finirà e, con il permesso del capo del governo o della polizia, potremo ritrovare la normalità di un abbraccio? Potremo scambiarci il segno della Pace in chiesa?
Pochi mesi fa, un amico medico (già vaccinato e il gel passato per le mani) mi allungò il suo braccio, strinse la mia mano: fu una sorpresa, una scossa elettrica, una sensazione di meraviglia. Mi ero dimenticato cosa fosse un contatto fisico. Lo guardai, si intuiva il mio spavento, la mia incertezza, ma lui era un medico, sapeva quello che stava facendo. Dopo qualche settimana un altro saluto, un altro medico. Poi, senza preavviso, un uomo che non conoscevo, in un negozio, mi strinse la mano. Mi disse che non voleva più rinunciarvi. Posso dire? Ebbi paura, ma non ritirai la mano. Lo scrittore Paolo Di Stefano, in questi giorni, ci ha avvertito: «L’abbraccio è cambiato. Non sempre è facile nascere due volte».
Abbiamo perso un’abitudine nata, con naturalezza, nei tempi dell’infanzia. Ora sarà una lenta convalescenza, dovremo vincere timori, rigidità, tensioni prima di ritrovare la gioia di toccare qualcuno. Soprattutto di toccare qualcuno che non conosciamo. L’abbraccio è l’immagine guida di questa primavera. Il segno di una fragile rinascita. Scaccio il pensiero che, ancora una volta, questa possa essere un’illusione. Dovrò ritrovare complicità nell’abbracciare gli amici e le amiche. Dovrò chiedere: «Posso?» e allargare le braccia e poi stringere un corpo.
Quest’anno i giurati del World Press Photo hanno scartato le immagini di guerra e hanno premiato una emozionante foto di un abbraccio. Una infermiera brasiliana, Adriana Silva da Costa Souza, che si china ad abbracciare un’anziana ospite di una casa di cura, Rosa Luzia. Foto di un fotografo danese, Mads Nissen. Entrambi i protagonisti, sono avvolti nella plastica delle loro protezioni: i teli trasparenti che li isolano si gonfiano, prendono aria, respirano. I giurati del World Press, solitamente inflessibili, invitano a guardare con attenzione: Adriana e Rosa sembrano pronte a spiccare il volo, le braccia si sono trasformata in ali. «Un simbolo di volo e di speranza».
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