In cammino...

Dialogo a distanza su futuro, attesa, speranza e utopia tra Giuseppe Goisis, già ordinario di Filosofia politica all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e Lorenzo Biagi, docente di Antropologia filosofica e di Etica, all’Università Salesiana.
22 Aprile 2021 | di

QUALE FUTURO?

Ricordo con grande piacere le discussioni fatte con l’amico Lorenzo, lungo le calli e i campielli che si animavano per le nostre parole, così ricche di speranza e amicizia. Già tanti anni fa, uno dei temi più ricorrenti, nei nostri dialoghi, era quello del futuro; ed era naturale che fosse così, dato che delle persone giovani e felicemente inquiete non possono che interrogarsi sul futuro, cercando di immaginarne la fisionomia, di condensarla magari in qualche rappresentazione che, come in un lampo, riassuma i vari aspetti da attribuire alla dimensione degli anni prossimi a venire. Quando si mette in questione il futuro, si è sovente presi dall’emotività e più il futuro sembra inafferrabile, e impensabile, più le emozioni (paura, ansia, speranza) dilagano e mettono in crisi i dati offerti dalla memoria e i filtri costituiti dalla ragione; sì, perché la memoria c’entra con la rappresentazione che ci facciamo del futuro, condensandosi, nei ricordi, le nostre esperienze e ciò che sappiamo del mondo e dunque siamo condotti a fantasticare sul futuro, intendendolo come una proiezione ordinata delle esperienze che abbiamo già vissuto, rese significative, talora trasfigurate, dal potere della memoria; essa non registra semplicemente, non rovista tra le rovine, conservando la cenere, ma è piuttosto un fuoco che investe ogni nostra azione, in maniera dinamica, duttile e perfino trasfiguratrice, conferendo e alimentando lo slancio verso il futuro.

Fino a che punto è possibile conoscere veramente il futuro? Nel periodo del Positivismo, dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi anni del Novecento, la visione generale del mondo, anche presso i ceti medi dell’Europa, era pervasa dalle filosofie scientiste e razionaliste; esse ritenevano d’aver scoperto le leggi del progresso storico e scientifico e quindi, conoscendo tali leggi, si pensava di poter prevedere, a volte perfino nel dettaglio, ciò che sarebbe succeduto al presente, considerando il futuro, in aggiunta, come portatore di prosperità, salute e longevità, con una visione, in breve, di stampo ottimista, perfino euforica. Tuttavia, preannunciato dall’affondamento del Titanic (1912), considerato invincibile prima del disastro, il rombo delle cannonate della Prima guerra mondiale s’incarica di cancellare tali superbe illusioni: la generazione immersa nel fango delle trincee constaterà tutte le fragilità e tutta la ferocia di cui l’umanità è capace. Il tempo si accartoccia su se stesso, e la convinzione di poter controllare il futuro, di tenere in pugno il gomitolo del tempo sembra svanire come neve al sole. 

Che ne è oggi del desiderio di anticipare gli avvenimenti che sembra caratterizzare l’irrequieto pellegrinaggio dell’umanità? Che ne è dell’idea che l’uomo sia un animale progettuale, che trova la sua dignità nell’orientare e controllare il cammino delle esistenze? Un’esperienza come il covid, da pochissimi previsto, ha manifestato con chiarezza l’imprevedibilità di un futuro che ci riem­pie ora, in questi mesi di prova, di sconcerto e smarrimento, mettendo allo scoperto una quantità di contraddizioni che magari erano già prima presenti, ma accuratamente celate. Tempo fa, uno studente con cui chiacchieravo al caffè mi confessava: «Per me pensare il futuro è troppo…»; ho riflettuto a lungo sul significato di queste parole e mi pare evocassero il disagio della precarietà, un’esperienza nella quale il crollo della memoria aveva tarpato ogni slancio, ogni apertura verso il futuro. Non a caso, il linguaggio giornalistico annovera delle parole nuove: «presentismo», «brevetempismo», per indicare un presente incalzante, avvolgente e perfino soffocante, tale da non lasciare spiragli verso il futuro. Eppure, il senso dell’educazione, comunque intesa, consiste nel dare una certa prospettiva, indicando, lungo il filo del «tempo vissuto», una certa direzione, un orientamento basilare…

«Neppure il futuro è più quello di una volta», ripeteva con ironia Paul Valéry, uno dei padri dello spirito europeo; la frase è tutt’altro che banale, come invece sembra. Un compito centrale delle nostre società consiste proprio nel trasmettere nelle coscienze dei cittadini, soprattutto nei giovani, un senso vivificatore del futuro, una visione attraente e costruttiva dei compiti che ci attendono, liberando ed emancipando da vedute troppo angustamente egoiste. Su questi temi, propongo al lettore un volumetto insieme agile e profondo di Sabino Cassese: Una volta il futuro era migliore, Milano 2021: può farci intendere come il problema non sia quello di ricostruire una pseudonormalità assai traballante, ma piuttosto quello di invertire la rotta e di cambiare la cadenza del nostro cammino

Giuseppe

IN ATTESA

Sì, il futuro rispetto a quando discorrevamo tra noi ha subìto una mutazione ben racchiusa in quella espressione dello studente. Espressione che dà da pensare sul serio! Nella condizione attuale in cui ci troviamo, assediati e insidiati dai «passaggi» del covid-19, inoltre, il futuro sta assumendo una ulteriore curvatura che si concentra in realtà sull’attesa. Anzi, l’attesa oggi sta fagocitando il futuro come apertura all’inatteso. In poche parole, viviamo un’attesa che cerca in ogni modo di determinare l’inatteso, che pure è in circolazione con il contagio. Forse quando ci si porta appresso un po’ di età in più, si pensa maggiormente al futuro degli altri (dei propri figli, dei propri cari, dei propri amici ma anche della comunità intera, in questo caso) che al proprio e l’attesa per molti versi diventa oggi più nervosa, si trasforma in impazienza e il futuro più che apertura appare vicolo cieco. 

In giro si respira aria di attesa, anzitutto come fine di questa condizione di incertezza e di esposizione a qualcosa che non si riesce del tutto a controllare. Anche se – dato sorprendente – molto di come sarà domani dipende proprio dai nostri comportamenti. Forse non eravamo abituati a questa idea. In quanto ci eravamo quasi convinti che il futuro dipendesse direttamente dalla nostra pianificazione ma, senza rendercene conto immediatamente, essa ha eroso progressivamente il senso e l’importanza dell’attesa. Perché l’attesa è un tempo pieno e non è affatto un tempo sospeso. Per molti l’attesa è più importante e più bella del compimento o dell’adempimento. Perché nell’ad-tendere c’è tutta l’attivazione del desiderio che si distende e sconfina, soppesa almeno per un po’ il presente bello o brutto che sia. Nell’attesa c’è tutto il volgersi al fine gustando ancora però il suo non realizzarsi, perché in tal modo – diciamolo – il tempo dell’attendere permette di fare del futuro qualcosa di non pianificato ma di dirompente e comunque di «diverso». Non ci importa molto durante l’attesa se poi quello che arriverà non vi corrisponderà del tutto, o vi corrisponderà solo in parte o addirittura per niente.

L’enigma consiste nel fatto che l’attesa noi la viviamo come qualcosa che ha valore in sé. Enigma è qualcosa che dà da pensare, diceva Paul Ricoeur. Ma è evidente che l’attesa si sporge sul futuro mediante l’immaginazione, magari scambiata per determinazione o, peggio, per un vagare onirico. Ma immaginare, come vedremo, non vuol dire determinare, bensì vivere l’attesa non come un tempo morto e inutile, in cui ci si arrovella dentro e basta, quanto invece come un tempo opportuno per sostare e prepararsi adeguatamente a quello che viene incontro. Anche perché il segreto dell’attendere sta tutto in una promessa. I nemici dell’attesa quindi sono essenzialmente due, assai presenti nello «spirito del tempo» che viviamo: l’impazienza e il risultato. La logica pretenziosa del risultato distrugge la gratuità che innerva l’attendere, per questo noi diciamo spesso «così, non avrò atteso invano». Ma quell’invano significa appunto gratuità, connotazione vera dell’attesa. E poi l’impazienza, o come diciamo oggi il «tutto e subito», che brucia tappe e tempi di gestazione, preparazione e maturazione. Aveva buone ragioni a cui rinviare Dietrich Bonhoeffer, quando annotava in carcere che «attendere è un’arte» e una «bea­titudine acerba» perché l’attesa, rispettata e vissuta per quello che è, ci farà «gustare la benedizione intera dell’adempimento».

Lorenzo

E SPERARE?

Anch’io sono stato accompagnato dal tema dell’attesa, come mi ha coinvolto il tema, in qualche modo prossimo, della speranza. L’esperienza della speranza e la riflessione su di essa è presente in gran parte di quel che ho scritto, fino al punto che qualche collega filosofo insisteva a canzonarmi, come il richiamo alla speranza fosse una debolezza, una specie di assurda fuga dalla realtà, con la sua morsa dolorosa. Del resto, la sapienza greca non vedeva di buon occhio la speranza, spesso associata alla paura: due emozioni abbinate, che avrebbero guastato la serenità apatica necessaria per superare le tempeste dell’esistenza. Ma questi filosofi antichi finivano per assumere una postura di rigidezza, simili a delle statue: il loro amore per la sapienza sembrava, e sembra, lontano da quella sapienza dell’amore, da quelle «ragioni del cuore» che ci pare oggi così necessario ascoltare… 

Le persone anziane, o che cominciano a esser tali, coltivano la memoria; allora, propongo un piccolo aneddoto: a Padova, negli anni Settanta, non lontano dal Liviano, su di un muro bianco una mano frettolosa aveva scritto un terribile imperativo: «SPARIRE»; e appoggiati a questo muro, come immersi in un letargo, un gruppo di ragazzi, tramortiti dalla droga. Lì vicino un’altra mano aveva scritto, con rabbia: «SPARARE», indicando, nella drammatica semplificazione della violenza, la via d’uscita dall’inerzia, che l’altra scritta additava come «beato» cammino verso il nulla. Ma una terza scritta, tracciata con un pennarello indelebile, aveva fatto fiorire un’inedita alternativa: «E SPERARE?». Ancor oggi, ogni volta che passo di là, il cuore mi batte forte ricontemplando, nel buio della memoria, quelle tre alternative, così drasticamente riassunte; già allora solidarizzavo con la terza scritta, quella che invitava a un’apertura generosa verso il futuro, alimentando quella «passione per il possibile» che è, propriamente, la speranza. Sembra davvero un paradosso ragionare di speranza nel clima del covid, in una condizione diffusa di smarrimento e anche, a volte, di arida rassegnazione, ma è anche un atto di coraggio consapevole e mirato: lottare contro quel nichilismo che, come un ospite indesiderato, si è insinuato nelle nostre famiglie e nelle nostre scuole, sostenuto da quelli che chiamerei «i maestri dello sconforto».

Ma che cos’è la speranza? Ci sono infiniti proverbi, e anche battute umoristiche, che cercano di definirla, ma raramente si è tentato di comprenderla in profondità; le mie conclusioni: la speranza è un’emozione, che viene stratificandosi come sentimento, per diventare infine una virtù, una virtù che ci spinge a sperare per tutti e con tutti, configurando progetti rea­lizzabili ed esprimendo gesti e azioni concretissime. Pur non scaturendo dalla ragione, la speranza evolve in comportamenti ragionevoli, di sollecitudine responsabile, favorendo così le alternative più preziose per l’uomo. Erano impressioni e giudizi così che ci si scambiava, amico Lorenzo, andando verso la stazione, nelle giornate di sole; ci accompagnava, a volte, Giancarlo Vendrame, bravo studioso, i cui scritti conservo a casa con scrupolo; da tanti anni non è più con noi, e questo pensiero mi commuove, ma penso a quel che ci ripetevano: «Non bisogna mostrare le nostre emozioni più profonde». E così, Lorenzo, ti lascio l’imbarazzo e la gioia di concludere questa bella chiacchierata.

Giuseppe

UTOPIA PER L’UMANO

In effetti, ciò che l’antropologia, ossia il tentativo di dire qualcosa sull’uomo, sull’essere che siamo – un essere che rimane un enigma, là dove «eni­gma», come ci ha insegnato il comune maestro Paul Ricoeur, non significa qualcosa di incomprensibile bensì qualcosa che dà da pensare – quello che l’antropologia – dicevo – tende a insegnarci è che l’uomo è homo viator, l’essere che cammina. Nomade, migrante, camminatore, viandante e perfino vagabondo ed errante. Sono posture diverse, certo, ma tutte hanno in comune il fatto che camminare per noi è crescere in umanità. E il motivo fondamentale è che camminando vogliamo andare da qualche parte. Ci proponiamo di andare da qualche parte, anche solo per «girare intorno», come si usa dire. Talvolta «immaginiamo» di andare da qualche parte… Ma tanto ci basta. E il camminare fin dall’antichità era il modo migliore anche per parlare e pensare insieme (syn-philosophein, con-filosofare). Quindi le nostre camminate erano a un tempo serene e serie… Camminate che a dire il vero sono diventate, in quest’ultimo anno, talvolta l’unico «respiro» per difendere il nostro respiro fisico e interiore da questo virus che attacca proprio il nostro respirare. Respirare in libertà!

Camminare è stato e continua a essere un modo per fare i conti e darci una ragione di questa pandemia. Ma perché proprio camminando? Allora permettimi di riprendere quella che forse è la «definizione» più geniale e sorprendente di quello che intendiamo quando parliamo di utopia. Rispondendo alla domanda «a che cosa serve l’utopia?», lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano un giorno rispose: «Lei è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare». Non ci vuole molto a cogliere e a «sentire» che questa risposta di Galeano è la più persuasiva. Paradossalmente, è forse anche quella più realistica. Qualunque sia il suo contorno, ciascuno coltiva un’utopia, ma in questi ultimi mesi è diventata un «immaginare comune»: non quello di ritornare alla normalità bensì quello di andare verso una nuova normalità! Con una libertà, con un passo e con un respiro nuovi, sicuramente diversi…

Ecco quello che mi sembra di percepire da tanti discorsi in circolazione, mentre le persone camminano. L’utopia di una nuova normalità, ossia voglia di camminare e di fare dei passi sempre, anche quando questa nuova normalità sembra allontanarsi di altrettanti passi. Perché abbiamo imparato che girare intorno al nostro io, come si predicava e si faceva prima della pandemia, non è camminare. È morire asfissiati dentro quella che Massimo Recalcati chiama la «io-latria». Se l’uomo non guarda a qualcosa che lo trascende, se l’uomo non «immagina» una utopia per tutti, finisce per sprecare la sua esistenza viatoria. Un camminare senza andare da nessuna parte? Ma non era forse quello che prima facevamo inconsapevolmente? Beh, adesso stiamo imparando che l’utopia ci serve per camminare, cioè per esistere veramente. E che se, in questo tempo, coltiviamo un pensiero utopico, vuol dire solamente che stiamo cercando di diventare umani. Buon cammino! 

Lorenzo

 

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Data di aggiornamento: 26 Aprile 2021
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