Un artista in corsa

Allo scoccare dei 50 anni, Nek ha voluto raccontarsi in un libro e a noi. Dalla musica alla fede, dall’esperienza nelle favelas brasiliane con la comunità «Nuovi Orizzonti» sino alla famiglia.
10 Marzo 2022 | di

Una carriera ormai trentennale, 17 album in italiano e in spagnolo, dieci milioni di dischi venduti, 600 concerti, quattro festival di Sanremo. È uno degli artisti più conosciuti e più amati, non solo in Italia: Laura non c’è o Fatti avanti amore sono soltanto alcune delle sue hit che tutti noi abbiamo in mente.

Ma Nek è prima di tutto Filippo Neviani, «un uomo in corsa», come ama definirsi, perché «ogni giorno è una sfida che ho paura di perdere», confida. Allo scoccare dei 50 anni, il cantautore ha voluto raccontarsi in un libro a cuore aperto, anzi A mani nude (Harper Collins).

Di pagina in pagina Nek – o, meglio ancora, Filippo – rivede il suo percorso artistico e di vita, a partire da un evento drammatico che ha rischiato di cambiare tutto: nel novembre 2020, mentre trascorreva il tempo libero riparando un vecchio carro nel suo «rifugio» nelle campagne attorno a Sassuolo, nel Modenese, si è ferito gravemente con una motosega e ha rischiato di perdere la mano sinistra.

L’intervento d’urgenza, i giorni in ospedale, la convalescenza, il lento recupero, la sosta forzata lo hanno messo di fronte, ancora una volta, ai valori che contano. Ogni crisi tuttavia contiene sempre un seme di rinascita. «Il dolore è infido come un serpente che avvolge la preda in un abbraccio fatale», scrive, ma porta allo scoperto la nostra essenza più genuina e quindi «contribuisce a farci realizzare opere che arrivano al cuore di tutti, poiché sono sincere, universali».

Msa. Dall’incidente è stato costretto a scendere a patti con le sue fragilità?

Nek. Sì, uno choc simile ti rende più consapevole dei tuoi limiti. Certo, inizialmente questo ti infastidisce, però poi in fondo ti fa vivere meglio.

Perché?

Si diventa più guardinghi, si analizza maggiormente la realtà, si medita di più, si lascia minore spazio all’istintività e si dà più fiato alla ragione. Si riscopre anche la pazienza, una virtù che personalmente, da ipercinetico come sono, avevo sempre sottovalutato. Insomma, nei momenti difficili emergono tante risorse che non sapevamo di possedere. Tutti noi abbiamo pregi e difetti ed è giusto ogni tanto farli affiorare, specie per chi, come me, comunica anche se stesso con la musica.

Sono trascorsi trent’anni dal suo debutto. Che cosa significa cantare per lei?

È liberatorio. Cantare vuol dire tirare fuori qualcosa da dentro. Quello che scrivo è quello che sento: avverto naturale prendere qualcosa di me per darlo agli altri, in cambio dell’emozione che ricevo. Il consenso degli altri è fondamentale per noi che facciamo questo lavoro.

Consenso, nello spettacolo, vuol dire successo. Com’è il suo rapporto con la fama?

Mi piace la celebrità, non lo nascondo e penso che sia normale: chi non vorrebbe essere sempre considerato, desiderato, perfino osannato? Però ho imparato a tenere tutto questo a debita distanza, o almeno ci provo. Capisco che il successo è subdolo e non bisogna costruirvi sopra le fondamenta della propria vita, perché sarebbe come stare sull’acqua: la posizione e la celebrità cambiano di volta in volta, perché si ha a che fare con l’incognita più grande che è il gusto degli altri, il loro parere. Dietro al successo deve esserci sempre un lavoro, il desiderio di fare quello che si ama fare. Ma non è giusto cambiare i propri connotati solo in funzione della celebrità: sarebbe snaturare se stessi.

Il successo è anche frutto di cadute: lei non ne fa mistero...

Proprio così. Nella carriera di un artista, i successi derivano anche da sofferenze, indecisioni, da mancate occasioni o da alcuni «no» che sono stati detti o ricevuti. Anch’io ho attraversato alti e bassi. Bisogna sempre rialzarsi.

La fede è importante per lei?

Moltissimo, perché è una scuola di vita, e soprattutto è un viaggio personale che arricchisce la parte interiore e spirituale. Ci preoccupiamo spesso di come dobbiamo presentarci fisicamente, curiamo molto l’aspetto estetico, e chi fa la mia professione e sta spesso sotto le luci della ribalta lo sa bene: a volte curiamo anche la psiche, ma di anima e di spiritualità si parla sempre poco. Nei giorni del ricovero in ospedale, ho visto da vicino quanto sia importante lo spirito. Se un animo è sereno, anche il corpo guarisce prima.

Anche con la preghiera?

Fa parte del percorso, di un bel cammino che a volte può rallentare o accelerare, però è costante. Il rapporto con la fede non è mai facile. Lo dice la parola stessa: noi poniamo fiducia in Qualcuno che nella vita ci mette anche davanti a prove, o comunque ci propone situazioni che possono essere diverse dall’idea che ci siamo costruiti. Noi tutti scegliamo sempre la strada più semplice per evitare ogni tipo di sforzo, e invece il più delle volte dobbiamo renderci conto che occorre affrontare anche prove importanti per ricevere molto frutto. Come racconto nel libro, quando mi accorgo che le angosce e le paure diventano schiaccianti, mi rivolgo alla fede, in particolare a una delle quattro virtù cardinali cristiane: la fortezza, la capacità di resistere alle avversità, una forza spirituale e morale che mi aiuta a ritrovare la solidità.

Nel mondo dello spettacolo è difficile parlare di fede?

È un ambiente in cui spesso si è centrati molto su se stessi: c’è l’Io e non c’è Dio. Si è molto egoriferiti e per Dio resta poco spazio, anche perché su Dio non ci sono libere interpretazioni.

Nel libro lei racconta anche l’esperienza compiuta con la comunità «Nuovi Orizzonti» nelle favelas più povere del Brasile. Che cosa le ha insegnato?

Soprattutto l’umiltà, una virtù preziosa che predispone all’ascolto e al dialogo. È una condizione in cui non ci si mette sul piedistallo, ma si è al servizio degli altri. Mi torna spesso alla mente il bellissimo insegnamento che papa Francesco ci ha dato nella Domenica delle Palme del 2020, in pieno lockdown: «La vita non serve se non si serve», ha detto. Lo condivido pienamente. Sento che il mio servizio passa anche dalla mia professione e dalla musica.

Tante cose lei le ha imparate da suo padre. Avevate un rapporto speciale?

Sì, mio papà è stato per me un mentore attraverso i suoi comportamenti, le sue visioni, le sue scelte, il suo modo di fare e di atteggiarsi. Forse l’ho compreso tardi, rispetto a quando avrei dovuto farlo. Era un uomo di poche parole e di molti fatti, ma anche da tanti dettagli si poteva capire quanto amore mettesse in ogni cosa. Per dedicare tempo a noi tutti, alla sua famiglia, rifiutò anche un posto da dirigente nell’azienda in cui lavorava. Continuo a sentirlo con me ogni giorno.

E lei com’è, come padre?

Sono apprensivo, talora anche geloso e possessivo, e mia moglie Patrizia ogni tanto mi riprende per questo. Mia figlia Beatrice ha 11 anni: credo di essere un padre che la ascolta, si diverte molto con lei e a volte è perfino complice. Penso che Bea possa comunque essere contenta perché ha la libertà giusta consentita dalla sua età. Anche se il genitore perfetto non esiste.

A 50 anni, allora, chi è Nek-Filippo?

Un uomo difettoso – ride – che crede e spera di conservare sempre uno spirito da ragazzo. E, come canto nella mia. E da qui, la vita rimane la cosa più bella che ho.

 

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Data di aggiornamento: 10 Marzo 2022
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