Un atleta in paradiso

Quest’anno ricorrono gli ottocento anni dalla morte di san Domenico di Guzman. Un santo appassionato della verità che, coevo di san Francesco, seppe instillare in una Chiesa in crisi nuova linfa vitale.
16 Agosto 2021 | di

Al giorno d’oggi, quando sentiamo parlare di un’atleta immaginiamo subito un uomo o una donna dal fisico scultoreo, temprato dalla disciplina sportiva. Anche Domenico di Guzman è stato un atleta, benché un po’ speciale, in quanto ha «modellato» non il suo corpo ma il suo spirito in una palestra tutta particolare, costituita dalla Parola di Dio, dalla vita sacramentale, dall’amore ai fratelli. In questo non ha fatto altro che tradurre nella sua vita quella che era stata l’esperienza di san Paolo: «Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile» (1Cor 9,25). Ecco perché Dante chiama Domenico l’«atleta di Dio» (Paradiso XII, 54). E santa Caterina da Siena, ne Il Dialogo, riporta che il Signore le disse a proposito di Domenico: «… prese l’ufficio del Verbo unigenito mio figliolo. Nel mondo pareva un apostolo, con tanta verità e lume seminava la parola mia, levando le tenebre e donando la luce. Egli fu un lume, che io porsi al mondo per mezzo di Maria». Questo modello d’atleta costituisce, quindi, già un primo motivo di riflessione: i santi, che non sono nati tali, ci ricordano la concreta possibilità della santità a chi la chiede con fede perseverante e si adopera per essa.

Alla cultura del fisico perfetto, dell’immagine, del presenzialismo, la vita di Domenico contrappone il primato dello spirito che non invecchia, svilisce e perisce, dell’essere sull’avere, del servizio sul dominare. C’insegna l’importanza di vivere l’unica vita che abbiamo, e per la quale non si danno tempi supplementari, puntando non su ciò che è urgente ma inesorabilmente passa, bensì su ciò che è necessario ed eterno, e che solo può riempire il nostro bisogno d’amare e di essere amati: «Chi può contenere Dio, non può essere riempito da qualunque cosa che sia meno di Dio» diceva san Bernardo. Domenico non ha mai cercato di diventare un «protagonista» ossessionato dal vendere la propria immagine, ma ha invece sempre colto le possibilità che la vita gli offriva come delle occasioni che Dio gli dava per realizzare il progetto d’amore che aveva pensato per lui e per la Chiesa.

Di Domenico ci parlano le testimonianze di coloro che hanno vissuto con lui e sono stati toccati dalla sua fede e dal suo amore verso il prossimo. Tra questi racconti ne ho scelti due, emblematici, una sorta di «assaggio», nella speranza che chi legge possa essere invogliato a conoscere personalmente di più questo «atleta» di Dio. Giovanissimo studente, decide di vendere tutti i suoi beni e, soprattutto, le sue preziose pergamene per donarne ai poveri, vittime della carestia a Palencia, il ricavato. Ciò rivela la generosità del cuore che batteva in Domenico: un cuore compassionevole, sensibile, disponibile. A chi gli chiede stupito le ragioni di un simile gesto, Domenico risponde con spontaneità: «Come posso studiare su pelli morte mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?». Con la ragione e la fede prese la decisione giusta, agendo in modo eccezionale di fronte a un’emergenza, rispondendo, dato che era un semplice studente, in modo straordinario a una situazione straordinaria, nella consapevolezza che in quel momento era chiamato a essere strumento della tenerezza di Dio, in modo concreto e senza nessun comodo e opportunistico rinvio o delega, seppure a Dio stesso (cf Mt 14,16). Una concreta lezione di vita per ciascuno di noi: rimanere aperti sempre a Dio e ai bisogni del prossimo hic et nunc! (cf Lc 10,33).

Il resto della sua vita, però, ci dice che la forma tipica, «ordinaria», della sua attenzione alle sorelle e ai fratelli del suo tempo è stata «la carità della verità» (cf Ef 4,15). Questa presa di coscienza inizia quando Domenico arriva a Tolosa e con un oste che aveva perso la fede, sperimenta, al di là degli argomenti discussi, la necessità di una predicazione che si basi soprattutto sulla testimonianza e sulla vita contemplativa. Forse solo in quel momento inizia a intuire che cosa il Signore voglia da lui ed è proprio in questo suo voler realizzare la volontà di Dio che si trova negli anni successivi a fondare, di fatto, prima le monache e poi, non degli specialisti della comunicazione, non degli oratori, dei professori o degli «inquisitori», ma l’Ordine dei predicatori impegnati nel dire a tutti che Dio è amore vero. Dal dialogo nella verità, preceduto dall’ascolto rispettoso con quell’oste, Domenico trovò quindi la conferma che gli uomini, anche se non sempre se ne rendono conto, hanno bisogno della verità come dell’aria e del cibo, della verità che salva, della Verità che è Cristo (cf Mt 4,4). Perché la verità non è un lusso, non è un hobby superfluo per gente sfaccendata, non è la mania culturale del Medio Evo, ormai fuori moda. La verità è ciò che consente all’essere umano di realizzarsi come essere umano, di non tradire la sua dignità e quella del prossimo, di raggiungere il proprio destino e sfuggire all’amarezza frustrante dell’insignificanza e alla depressione della mancanza di senso.

«La carità della verità e la verità della carità», che non hanno paura di chiamare le cose con il proprio nome, è il messaggio di Domenico, il più alto e il più attuale di tutti, in quanto destinato a nutrire ciò che non perisce: un amore di «marca», «firmato» e non un’imitazione o un surrogato che molti svendono. Verità, onestà, carità che oggi sono spesso, forse come non mai, latitanti, iniziando proprio dalle nostre famiglie, dalle nostre comunità religiose ed ecclesiali. Quella carità della verità che non risente delle paure per le novità, ovvero della cultura dominante o del pensiero della maggioranza, e quindi non si arrocca, non s’impone, ma si «propone», sempre e comunque, costi quel che costi, prima di tutto con chi ci è più prossimo (cf Mt 19,21; At 5,29). Coscienti che il vero amore si realizza solo nella verità e richiede anche sacrificio perché, quando si ama, inevitabilmente si soffre e quando non si è disposti a soffrire è perché si è rinunziato ad amare (cf H. Hesse).

Ottocento anni ci separano dalla salita al cielo di Domenico. Ci separano da lui lo spazio di tempo, il contesto culturale e le circostanze, ma non la confusione, lo smarrimento, le tensioni e, soprattutto, la mancanza della vera fede e quindi della speranza, elementi, questi ultimi, propri del suo come anche del nostro tempo. Domenico c’insegna ancora oggi a non giudicare, ma con umiltà a saper interpretare il grido d’aiuto che in modi diversi, e forse spesso incomprensibili, si leva da questa umanità (da ciascuno di noi), sempre tentata, come accadde ai nostri progenitori (cf Gn 3,5), di farsi Dio, con le conseguenze che tutti sappiamo ma che non vogliamo vedere: conflitti, guerre, sfruttamento, uso della forza e ricerca del potere per dominare l’altro. La sua vita e il carisma che lo Spirito Santo gli ha donato per la Chiesa, continua a vivere nell’Ordine da lui fondato, e ci ricorda innanzi tutto che «non dobbiamo difenderci dalla Verità, perché è la Verità che ci difende». Quella Verità che è Dio (cf Gv 14,16), il quale, come disse una volta Giovanni Paolo I, è padre e madre allo stesso tempo. Un Dio che, come tutti i genitori, non può che avere a cuore la vera felicità dei propri figli, accogliendoli per ciò che sono, ma desiderando sempre e comunque il massimo di bene per loro.

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Data di aggiornamento: 16 Agosto 2021
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