Oltre le sbarre
«Non c’è giorno che sul pianeta carcere più di qualcuno abbia da elargire la propria ricetta. In termini di soldoni, checché non se ne dica, oppure se ne dica in modo fuorviante, comporterà un nuovo fuori pista (...), un perenne approccio emergenziale (...). La patologia dell’ansia da prestazione avrà una ricaduta esagerata sulle persone detenute (...) ma anche e soprattutto sugli operatori che, per risolvere problemi che s’accatastano uno sull’altro senza tregua né soluzione, rischiano di rimanere impigliati in una apnea asfissiante (...). Ho l’impressione che una certa criticità sociale diligentemente alimentata dai pregiudizi non faccia altro che perpetrare uno scollamento e un distacco dal proporre progetti (...) che tutelino le vittime del reato, ma che proprio da questa premessa possano essere generate nuove opportunità di riparazione e riconciliazione. Si tratta di una vera e propria rivolta copernicana, è veramente necessario attuare una giustizia giusta, una giustizia che non sta solo a una mera punizione, per cui sappiamo chi entra in prigione ma chi esce non è dato saperlo. Sappiamo chi è l’attore del reato ma, tranne richiedere inasprimenti delle pene e ipotetiche chiavi da buttare via, perdiamo contatto con la realtà di un territorio che include sfruttando le capacità di ognuno, perché la responsabilità sociale condivisa genera corresponsabilità, e ciascuno attraverso realtà e sensibilità differenti, attraverso ruoli e competenze definisce il senso comune. Chissà se sul carcere (...) e su una pena rieducativa, forse occorrerà finalmente argomentare, abbandonando la sponda delle opinioni vestite di stereotipi». Lettera firmata
Certamente non è lo stesso vivere l’esperienza del carcere dall’interno, detenuti e personale penitenziario compresi, e dall’esterno. I bisogni, le attenzioni, ma anche le aspettative sono per alcuni versi molto differenti. Come dire? I primi non vedono l’ora di uscirne, e mentre sono costretti a starci dentro, desidererebbero comunque una vita dignitosa e confortevole. Gli altri vorrebbero piuttosto che i malviventi ci stessero dentro il più possibile, pagando la propria colpa anche con un bel po’ di meritati disagi quotidiani. Ma e gli uni e gli altri avrebbero diritto e dovrebbero aspirare a vivere in un Paese civile. E la situazione dei detenuti nelle carceri nonché il senso e, perciò, l’obiettivo che si vuole dare al carcere stesso, è un segno inequivocabile del livello di civiltà di un popolo.
L’articolo 27 della Costituzione italiana recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Mentre il Vangelo ci insegna a distinguere tra ciò che una persona può aver commesso, anche di brutto e di cui sicuramente è responsabile e perciò deve assumersene le conseguenze, e la persona stessa. San Francesco e sant’Antonio hanno incontrato molti briganti: non hanno detto loro che sono stati bravi, anzi, al contrario. Ma li hanno aiutati a riscoprire la grazia del Signore e la forza rigenerante del perdono, di Dio e degli uomini. Pensate che Antonio ne ha spediti alcuni a farsi ben 12 volte il pellegrinaggio a Roma!
Ma se secondo il dossier Morire di carcere dell’associazione Ristretti Orizzonti, al 24 aprile 2017, sono 949 i casi di suicidio in carcere tra il 2000 e il 2017, un numero che ha toccato le 1.312 unità se si considera il periodo compreso tra il 1990 e il 2014 (con un tasso di suicidio pari al 9,88 per cento, un dramma, considerato che il tasso di suicidi nella popolazione italiana fuori dal carcere tra il 1990 e il 2014 è stato dello 0,5 ogni 10 mila residenti, quindi con una frequenza di suicidio in carcere di circa venti volte superiore), beh, pur per quello che freddi numeri possono significare, c’è qualcosa in essi che umilia ognuno di noi.