Ius soli, riflessioni sul tema
Capisco poco di leggi, ma mi considero un buon cittadino, che non nasconde quel che guadagna (non molto) e l’ha spesso tranquillamente dichiarato in pubblico quando si è indignato per quel che guadagnano certi tomi della Rai-tv e altri dello stesso tipo umano e intellettuale, i padroni e i loro servi più preziosi; un cittadino che rispetta, nei limiti della loro conoscenza, il milione e passa di leggi che il nostro Parlamento ha sfornato e continua a sfornare, assurdamente e forsennatamente più numerose di quelle di altri Paesi prossimi al nostro. Credo però nei principi della disobbedienza civile, e non in quelli, così in auge in Italia, della disobbedienza incivile, e vedrei con molta passione il ritorno a quelle forme di disobbedienza che illustrarono molti anni fa tante iniziative per esempio dei radicali, riguardanti, per citarne alcune, l’ambiente e tante forme di ingiustizia sociale, di «inciviltà».
E se non ho fatto a suo tempo l’obiettore di coscienza fu perché aspettai di vedere, prima di dichiararmi, se mi prendevano o mi riformavano – nel secondo caso per poter tornare di corsa a Palermo al lavoro che facevo con i bambini nelle baracche, che consideravo più importante del perder mesi o anni in un carcere militare. Oggi di nonviolenti che si dichiarano tali ce ne sono abbastanza, ma si direbbe che siano più interessati alla loro purezza che alla sporcizia della società in cui vivono. Anche per questo sono stato di recente tra i promotori di un appello per lo ius soli (ideato e scritto in prima stesura da una donna coraggiosa, Ginevra Bompiani) cui ne è seguito un altro di insegnanti, che sono in Italia coloro che hanno più chiaro, specialmente alle elementari, il fatto che siamo ormai da tempo una società multietnica. I loro scolari sono per gran parte figli di immigrati, come ben sanno tanti genitori che fanno finta di non saperlo.
Non posso dire come andrà a finire, ho fiducia che possa finir bene, ma ho qualche riserva sulla scelta che verrà fatta tra ius soli e ius culturae, essendo la seconda opzione quella prediletta da molti e importanti personaggi, ottime persone, che però mi sento di contestare perché non credo che il diritto a venir considerati italiani debba dipendere dall’aver conoscenza delle nostre leggi e della nostra cultura trascurando per tanti la semplice evidenza dell’esser nati qui invece che altrove. La mia famiglia fu costretta all’emigrazione in Francia a metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo e ho nipoti con doppia nazionalità e bisnipoti perfettamente francesi, ancorché legatissimi all’Italia.
Genitori e fratelli l’hanno ottenuta dopo un certo tempo di permanenza, i nipoti perché lì sono nati. Perché non dovrebbe essere così anche da noi? Nella nostra Costituzione c’è qualcosa che lo impedisca? Non è una richiesta eccessiva quella di metter da parte la propria cultura d’origine e di sposare la nostra? Era forse un cattivo sogno quello sognato dalla maggior parte dell’umanità che credeva «nostra patria il mondo intero» e vedeva come una condanna «biblica» determinata dall’orgoglio degli uomini quella della Babele delle lingue, della divisione tra etnie e culture in vece che della loro pacifica coesistenza, nel riconoscimento di una comune appartenenza?