Una casa per i campesinos dell’Ecuador
Può un male diventare un bene? Il progetto di Caritas Antoniana che lanciamo quest’anno per la festa di sant’Antonio si sviluppa su questo stretto crinale. A prima vista, è semplice: la costruzione di 75 casette, a Jama, in Ecuador, dopo il terremoto dell’aprile 2016. Nella realtà, è più ambizioso: mira a riaccendere la speranza di famiglie prostrate dalla povertà e dall’abbandono, a cui il terremoto ha tolto le ultime forze ma ha dato anche un’inattesa opportunità. Una sfida difficile che sosterremo accanto ai missionari locali, che operano in condizioni davvero al limite. Eccovi il racconto di viaggio di fra Giancarlo Zamengo, direttore generale del «Messaggero di sant’Antonio».
Con sant’Antonio alla fine del mondo
«Sono in piena foresta, eppure mi sento alla fine del mondo. Qui il cielo è grande e l’aria è pulita, eppure mi manca il respiro. Non è colpa del clima, anche se a pochi chilometri da qui passa la linea invisibile dell’Equatore. Mi trovo a nord dell’Ecuador, nell’entroterra di una piccola città che si chiama Jama, nella provincia del Manabí. L’Oceano Pacifico è a pochi passi. Si percepisce la sua presenza immensa. Eppure mi manca l’aria. Ho in mano alcune immagini di sant’Antonio, ne porgo una al contadino con una consunta maglietta bianca che mi sta di fronte: mi restituisce un grazie assorto, distante, impacciato. Intorno a me e a fra Fabio c’è un drappello di persone silenziose. Sono gentili, di quel rispetto paziente che si deve al forestiero a lungo annunciato. Ma ho la sensazione che la rassegnazione li abbia vinti. Passeremo senza lasciare un segno?
Mi guardo meglio attorno. C’è qualcosa di strano. Ovunque sono andato nel mondo, anche nel posto più misero, i bambini rimanevano bambini. Vivaci, curiosi, vocianti. Qui non parlano, non giocano, non sorridono. Sfilo un’altra immagine di sant’Antonio dal mucchio, reprimendo un sottile imbarazzo. Sto per porgerla a un bambino, ma mi soffermo a osservarla: «Ce l’hai messa tutta per farci arrivare fin qui!» penso tra me. Il volto sereno del Santo sembra abbozzare un sorriso scherzoso. Alzo lo sguardo verso fra Fabio, gli leggo in faccia la stessa difficoltà. Non siamo mai pronti. La povertà mette a dura prova, pretende l’anima, straccia le sicurezze. Sant’Antonio ha voluto venire fin qui, dove la speranza vacilla, nel cuore di questa foresta alla fine del mondo, dove nessuno lo riconosce. Siamo pronti ad accettare la sfida?
Tutto ha inizio da un terremoto, quello terribile del 16 aprile 2016. A distanza di anni non si sa ancora quante siano state le vittime, forse 800, forse 1.000. Il motivo è che, mentre nelle città è arrivato qualche aiuto, gli abitanti dei tanti villaggi isolati nella foresta sono rimasti esclusi dai soccorsi. Non si tratta di indios, ma di gruppi di famiglie di capesinos, cioè di contadini che, per povertà estrema, si erano rifugiati nella foresta e vivevano di agricoltura di sussistenza. Che fine avevano fatto?
Ebbene è proprio quel terremoto a riportarli alla luce, a riprova che nessun male è una notte senza stelle. A parlarci di loro per la prima volta è padre Walter Coronel, referente in passato di alcuni progetti di Caritas Antoniana. Un sacerdote conosciuto per aver sempre scelto le parrocchie più difficili, nel cuore dell’Amazzonia, raggiungendo i parrocchiani ovunque fossero e con qualsiasi mezzo, a piedi, in canoa, a cavallo. Il tipo adatto, secondo l’arcivescovo di Portoviejo, Lorenzo Voltolini – che tra l’altro è bresciano – per aiutare la gente sperduta dei villaggi.
Un progetto nato in salita
“Un progetto post terremoto no” avevamo risposto a padre Walter quando ci aveva interpellati. “Anche l’Italia continua a tremare”. Padre Walter non si era perso d’animo e aveva insistito: “Fosse solo il terremoto, venite a vedere”.
Partiamo io e fra Fabio. E il viaggio comincia male. Quattordici ore di ritardo ad Amsterdam e una notte accanto a un’aiuola di alberi di plastica e di finti cinguettii. Ironica anteprima della foresta ecuadoregna in cui stiamo per inoltrarci. La prima tappa è Quito, nel convento dei nostri frati, quasi 3 mila metri d’altitudine e una città vecchia che ti riporta al tempo dei conquistadores. Vado a dormire esausto, il giorno dopo ci aspetta un lungo viaggio: dalle cime delle Ande all’Oceano Pacifico.
All’alba un cinguettio di uccelli, fortunatamente veri, inaugura la mia giornata. Partiamo alle 4, accompagnati da fra Marco. Strada facendo il paesaggio cambia continuamente. A zone aride e secche si alternano prati e colline verdeggianti. 600 chilometri, ma il viaggio è infinito. Durante il tragitto, fra Marco ci spiega che negli ultimi anni il divario tra ricchi e poveri si è acuito moltissimo. Jama, la nostra meta, ne è un esempio. Solo cinque famiglie su un totale di 10 mila abitanti posseggono tutte le attività dell’area, in particolare il lucroso allevamento dei gamberi. Il resto della popolazione vive alla giornata. Il terremoto che ha devastato Jama ha peggiorato ogni cosa.
Lasciamo l’arteria principale ed entriamo in una nuvola di polvere. Non c’è una sola strada asfaltata e ogni tanto incontriamo pozze grandi come laghi, da cui speriamo di fuoriuscire senza danno. Jama non ha più macerie, ma le file di case basse sui cigli delle strade hanno parecchi vuoti, come bocche sdentate.
Padre Walter è come me lo immaginavo: un fiume in piena. Ha un grave problema di vista, che metterebbe in crisi chiunque. E invece lui non si ferma un attimo, come se il limite gli desse la forza: saluta, consola, abbraccia. Un’apertura totale al servizio. Ciò che mi colpisce di lui è che affronta situazioni difficilissime con una larga risata. Una disponibilità che comunque non è mai ingenua. Non si lascia mai strumentalizzare, ma soprattutto, pur gestendo notevoli risorse economiche per questi luoghi, non possiede nulla.
Nelle baracche dei dimenticati
Il giorno dopo partiamo alla volta di «Las Palmitas», un nome esotico per un piccolo villaggio all’interno della foresta di Jama. Vi abitano quindici famiglie, isolate dal mondo, coltivatori e raccoglitori di cacao. Qui è in corso il primo cantiere, per testare il tipo di abitazione che abbiamo scelto per il progetto. Proviamo a rompere il ghiaccio. Chiedo di vedere alcune delle persone che andremo ad aiutare. In mano, i quadretti del Santo che ciascuna famiglia appenderà nella nuova casa, quando sarà pronta.
Mi accorgo che non c’è baracca in cui non siano presenti almeno due disabili. C’è Tomasa, per esempio: 35 anni, sordocieca, ha sette figli, sei dei quali con lo stesso problema. Ma l’incontro che mi resta più nel cuore è quello con Isabel, 9 anni. Mi si presenta schierata di fronte ai suoi famigliari. Lo trovo strano, visto che qui i bambini si nascondono dietro ai genitori. Mi fissa in silenzio. Non capisco e provo un contatto con gli adulti: tre giovani zii e la madre. Nessuna risposta. Rimango interdetto col mio santino in mano. Sono in difficoltà, finché una suora non mi spiega l’arcano: «È l’unica della famiglia che sente e parla». Ha un viso d’angelo, Isabel, e un portamento di donna: sa di essere l’unico contatto con il mondo per i suoi familiari, li protegge, li ha presi per mano.
Walter coglie la mia perplessità: «Sì, i disabili sono tanti qui. Il motivo più probabile è l’isolamento e il fatto che si sposino tra consanguinei. Ma ci potrebbe essere anche un altro tipo di problema. Occorrerebbero analisi specifiche, ma non abbiamo i soldi neppure per le prime necessità». Ora capisco i silenzi, i bimbi che non giocano, la percezione soffocante di trovarsi in un limbo senza futuro e senza storia. Non ho mai visto una povertà così profonda. Chiedo se c’è qualcuno che accompagna queste persone. «Alcune suore si sono trasferite qui dalla città – risponde Walter –. Vivono ogni giorno con loro. Tessono la speranza, con tanti piccoli gesti di cura».
Sant’Antonio ha bisogno di noi
Il giorno dopo visitiamo un altro villaggio. Nonostante la povertà e una lontananza ancora maggiore da Jama, qui è iniziata un’altra storia. Il motore di tutto è Mirian, la suora-parroco di «Buenos Aires», altro nome ameno per un pugno di baracche. Ci aspetta all’incrocio con la strada maestra. È vestita come le altre donne, ma a distinguerla è un grande crocefisso che le pende sul petto. Vive in una casupola costruita dal vescovo, si mantiene con l’elemosina dei parrocchiani, ma è il loro punto di riferimento. Lotta per far loro avere la terra, le case, lavora con le donne e con i bambini. Anche qui molti disabili e una povertà immensa, ma la vita sta riprendendo colore. Il parrocchiano con la baracca più grande l’ha messa a disposizione della comunità per accogliere gli ospiti di sant’Antonio.
Entriamo nella casa di legno e tiriamo un sospiro di sollievo. Finalmente è festa. Le donne cucinano, i bambini sono tornati bambini, chiassosi e vivaci. Diamo loro carta e colori per disegnare la casa che vorrebberoda sant’Antonio. Si sdraiano sul pavimento e cominciano a sognare. Damian ci fa sopra un sole grande, Kevin ci mette accanto l’automobile, Carlita la vorrebbe con le ali.
La casa nuova farà la differenza, ricostruirà le famiglie e le comunità. Ritorneranno i colori, il sole di Damian, le ali di Carlita. La speranza può attecchire di nuovo anche dove sembra persa. Vedo la meraviglia di essere Chiesa insieme. Noi doneremo le case, le suore le riempiranno di vita, padre Walter e il suo vescovo andranno in cerca di altre anime senza storia per riportarle alla speranza. Sant’Antonio ci ha portato fin qui, alla fine del mondo, dove non saremmo mai arrivati. Ci ha invitato a entrare nelle case degli invisibili, ma ora ha bisogno di noi per riaccendere i loro sogni».
Ecco come puoi sostenere il progetto.
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