24 marzo: una giornata per i missionari martiri
Il 24 marzo del 1980 veniva brutalmente ucciso monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, arcivescovo di San Salvador, elevato all’onore degli altari, come beato, da papa Francesco. Si tratta di una memoria che ha una duplice valenza, laica e religiosa. Infatti, nel giorno del suo martirio cade la «Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime», proclamata dalle Nazioni Unite. Contemporaneamente, già da molti anni, il 24 marzo siamo chiamati a fare memoria dei «missionari martiri», cioè di coloro che hanno dato la vita per la causa del Regno di Dio. Si tratta di uomini e di donne che, nella fede, hanno manifestato la parresìa, il coraggio di osare, nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo, perché «chiamati alla vita». Un’espressione, questa, forte e diretta, che quest’anno è stata scelta dalla Fondazione Missio – che rappresenta in Italia le Pontificie Opere Missionarie – come slogan per la XVI Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri.
Si tratta di una gratuità che rende davvero intelligibile il Verbo, cioè la Parola forte di Dio. La fede, d’altronde, non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi è la radice di una umanità autentica di cui i missionari martiri sono testimoni.
Emblematico è l’esempio dell’apostolo dei Gentili, Paolo di Tarso, quando sentì approssimarsi il declino del suo vigore: Bonum certamen certavi, cursum consumavi, fidem servavi («Ho gareggiato in una bella gara, ho terminato la corsa, ho conservato la fede»). Ecco perché la loro esperienza, quella dei tanti apostoli del Vangelo, disseminati nei cinque continenti, all’insegna della gratuità e della radicalità, diventa, per ogni credente, motivo d’ispirazione. Infatti, se è vero che la Storia è scandita da molteplici patimenti, per chi crede e non crede, dall’altra, nella fede, essa porta il segno della redenzione.Il martirio, pertanto, ha un significato molto più estensivo che va ben oltre l’eroica testimonianza di colui che, di fronte alla virulenza del mysterium iniquitatis, all’opposizione ostinata del mondo, arriva fino all’effusione del sangue.
In questa prospettiva, la celebrazione dei martiri riguarda dunque anche i «vivi», cioè quegli uomini e quelle donne che hanno fatto la scelta di rimanere al fianco dei poveri, in condizioni non solo disagevoli, ma anche di grave pericolo. La loro fede non è mai un sentimento dissociato dalla vita, anzi, è la radice di un’umanità autentica disposta a dialogare con tutti, fossero essi anche i propri carnefici.
E se la domanda fondamentale, che interpella ognuno di noi, è quella riguardante il senso e il significato delle persecuzioni che attanagliano, ancora oggi, molte comunità, i nostri missionari e missionarie, con il loro esempio, ci aiutano a cogliere un mistero che ci sovrasta: quello del trionfo pasquale della vita sulla morte. D’altronde, essere credenti significa, innanzitutto, cogliere la certezza di una presenza, quella di Cristo, vivendo coerentemente e dignitosamente secondo il dettato evangelico. Proprio come ebbe a scrivere nel suo testamento padre Christian de Chergé, il priore dei monaci trappisti uccisi in Algeria, a Tibhirine, il 21 maggio 1996: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere anche oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a quel Paese».
Papa Francesco ha autorizzato, il 26 gennaio scorso, il cardinal Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, a promulgare il decreto riguardante il loro martirio, insieme a quello di altri 12 tra religiosi e religiose uccisi in Algeria tra il 1994 e il 1996, «in odio alla Fede».