Ginnastica o cosmesi
Non tira aria buona per la pace, di questi tempi. I tamburi di guerra hanno ripreso (ma avevano mai smesso?) a far udire il loro lugubre «tam tam». I potenti della Terra giocano come bambini alla guerra, se non fosse che le armi che impugnano non sono di plastica. Ma non ne sembrano più di tanto preoccupati o consapevoli. Urlano, intasano la comunicazione di minacce, gonfiano i muscoli come fanno alcune specie di scimmie, o i leoni con la criniera e i galli con la cresta. L’importante è avercela con qualcuno, dargli sempre contro, indicarlo al pubblico ludibrio come il nemico verso cui convogliare rabbie, odi, colpe. In nome dell’egoismo fatto sistema, a tutti i livelli sociali…
Ma noi, tutti noi che sembriamo lontani chilometri dalle stanze dove si dovrebbero risolvere queste questioni, noi che possiamo fare?! Aspettare ordinatamente la catastrofe? Affidare i nostri mal di pancia al furbo approfittatore di turno? Girarci dall’altra parte? Scollegare il cervello? Mi parrebbe utile provare a recuperare dalla Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica di papa Francesco datata ormai 2013, alcuni preziosi suggerimenti. Perché, come dice l’altro Francesco, quello di Assisi, «la pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancor più copiosa nei vostri cuori» (Tre compagni 58).
Il primo. Scrive il Papa che il tempo è superiore allo spazio (nn. 222-225). E cioè che con la politica, e la pedagogia, del tutto e subito, magari anche senza sforzo, non si va molto lontani. Ci servono invece orizzonti più ampi, per dare senso all’impegno di ogni giorno. Dobbiamo nutrirci di possibilità, percorsi, speranze, attese.
Per il secondo, il Papa parla di unità che prevale sul conflitto (nn. 226-230), e mi sembra che non ci sia nulla da aggiungere.Un terzo suggerimento: il tutto è superiore alla parte (nn. 234-237). Che tradotto significa: passare dall’io al noi. «Non è possibile godere della pace del cuore senza l’amore verso il prossimo» (sant’Antonio, Domenica III dopo l’Ottava dell’Epifania): nella consapevolezza evangelica che o stiamo un po’ meglio tutti, o non sta bene del tutto nessuno. È la faccenda della comunione dei santi e dei peccatori. È think globally, make locally («Pensa globalmente, fa’ localmente»).
Ma è l’ultimo suggerimento di papa Francesco che mi intriga: la realtà è più importante dell’idea (nn. 231-233). In tempo di fiction e di (finti) reality, nonché di amicizie ed esperienze social, e cioè virtuali, mentre ce ne stiamo postmodernamente in equilibrio sul crinale tra verità e menzogna, virgolettando ogni parola perché tutto è relativo; beh, fare i conti con la realtà, non prescindere da essa, significa affermare che non ci sono solo interpretazioni, ma fatti. Significa che le nostre idee e progetti devono misurarsi con ciò che «c’è là fuori».La realtà si impone, è irriducibile, resiste ai deliri dei nostri pensieri. È il particolare inaspettato e imprevisto che ci strappa dalle nostre abitudini mentali e operative. È essere impreparati davanti alla realtà, che attraversa le nostre storie quando meno ce l’aspettiamo. Come lo fu il malcapitato della parabola evangelica rispetto al samaritano che se ne tornava bel bello verso casa: che non è buono, semplicemente permette alla realtà di scombinargli i progetti di quella sera. Mi diceva un amico sacerdote che, purtroppo, tutti i nostri sogni si grattugiano sul ruvido asfalto. Il filosofo Ludwig Wittgenstein affermava che l’attrito della realtà è altresì necessario per camminare, altrimenti scivoliamo come sul ghiaccio. È allenarci alla realtà, aggiunge il Papa citando un altro filosofo, Platone, e non aggiustarcela a nostro uso e consumo camuffandola con la cosmesi.