Rwanda, gli altri cento giorni
Poco meno di un quarto di secolo fa, in questo meraviglioso angolo di Africa che chiamano la terra delle mille colline, tra parchi nazionali ricchi di animali e gente dalla pelle colore dell’ebano, dove le nubi si toccano con le mani, fu compiuto uno dei genocidi più sanguinosi della storia dell’Africa del XX secolo. Dal 6 aprile 1994 e fino alla metà di luglio, per circa cento giorni, il Rwanda fu ridotto a un lago di sangue. Un milione di persone venne massacrato a colpi di machete, armi da fuoco e bastoni chiodati. Le vittime furono a maggioranza ruandesi di etnia tutsi, ma neanche la minoranza hutu moderata venne risparmiata.
Nonostante la comune fede cristiana tra hutu e tutsi, l’odio tra le due etnie è sempre stato diffuso fin dal periodo del colonialismo. Infatti, furono i belgi a sottolineare le differenze fisiche tra loro, allargandole anche all’aspetto sociale. Gli hutu sono infatti medio bassi, mentre i tutsi sono snelli con lineamenti del viso più sottili. Durante tutta la permanenza dei belgi a Kigali, ai tutsi fu dato un incarico di potere, mentre gli hutu erano reclutati nelle mansioni più umili e al lavoro nei campi. La popolazione era ben divisa, non solo nella società, ma anche sulla carta d’identità. Un timbro blu stampigliato sopra la fotografia di riconoscimento posta nella prima pagina del documento, distingueva gli hutu dai tutsi, facendo la differenza. Da dopo il genocidio, naturalmente questa distinzione tra le etnie è stata abolita.Nel 1990 il gruppo politico-militare dell’RPF (Fronte Patriottico Rwandese), nato nella comunità tutsi rifugiatasi in Uganda, tentò un colpo di Stato alimentando una guerra civile a cui seguì il genocidio, con la successiva salita al potere dell’RPF.
Gli inizi della tragedia
Il 6 aprile del 1994 l’aereo presidenziale dell’allora dittatore Juvenal Habyarimana, al potere dal 1973, fu abbattuto da un missile di origini ignote nei cieli di Kigali, mentre era di ritorno da un colloquio di pace. È da questo pretesto di vendetta che la Guardia Presidenziale, appoggiata dai gruppi paramilitari hutu Interahamwe, diede inizio al massacro dei tutsi. In poche ore furono interrotte tutte le comunicazioni del Paese, l’unica radio attiva nell’intero Rwanda era sotto il controllo degli hutu e veniva utilizzata per incitare allo sterminio degli «scarafaggi» (così venivano chiamati i tutsi dall’etnia rivale). Seicentomila macheti importati dalla Cina erano pronti per essere usati, la meticolosa organizzazione del genocidio, curata dal colonnello Thèodeste Bagosora e dal generale Augustin Bizimungu, stava per prendere forma in tutta la sua ferocia.
Nell’indifferenza dell’Occidente, che aveva percepito il problema ruandese come lontano dai propri interessi, un milione di persone si apprestava a fuggire in Congo, in Uganda, in Burundi e in Tanzania per mettersi in salvo dall’epurazione etnica avviata dagli hutu e sostenuta dal governo stesso. Fiumane di persone, in un biblico cammino, si misero alla ricerca di un luogo sicuro, lontano dalla ferocia avversaria. Un altro milione di persone furono invece brutalmente massacrate dalle squadre della morte; interi villaggi vennero setacciati in cerca degli «scarafaggi» tutsi da sterminare. Neppure le chiese, dove spesso si rifugiava la gente per scampare alla morte, furono risparmiate. Nelle sole chiese di Nyamata e Ntarama, oggi adibite a memoriale in ricordo del genocidio, sono state massacrate centinaia di persone lì rifugiatesi nell’illusione di scampare alla morte sicura.
Anche le Nazioni Unite si disinteressarono del problema, nonostante le tempestive richieste d’aiuto inviate dal generale canadese Romeo Dallaire, allora comandante delle forze armate di stanza nella capitale ruandese. Le duemilacinquecento unità militari dei caschi blu presenti in Rwanda furono ridotte a sole cinquecento dopo un mese dall’inizio del dramma. Né l’Onu né tantomeno l’Occidente avevano compreso il genocidio. Forse per mancanza di interessi diretti nella zona, o forse per non intraprendere una nuova missione in un’Africa nella quale il ricordo della battaglia di Mogadiscio, denominata Restore Hope, di pochi mesi prima, era ancora vivo. In quell’occasione, in Somalia avevano perso la vita ben diciannove marines americani. L’allora presidente Bill Clinton non voleva altri morti americani nel Continente Nero. Da non sottovalutare pure la posizione di Mitterrand e della Francia, che, in un primo momento, si schierò dalla parte dei tutsi, per poi affiancare successivamente gli hutu e spingerli alla rivolta. I francesi, inoltre, addestrarono in terra ruandese i clan del «presidente» Habyarimana, preparandoli alla carneficina più violenta. Il mondo voltò le spalle al Rwanda e quello che successe oramai lo sappiamo tutti, è nei libri della triste storia dell’Africa.
Un Paese che guarda al futuro
Se il genocidio ebbe fine, è solo grazie a un esercito di tutsi esuli facenti parte del Rwandan Patriotic Front, che penetrò nel Paese, ormai martoriato e allo stremo, dalla vicina Uganda. Sotto il controllo e la guida del generale Paul Kagame, dopo qualche anno di inevitabile instabilità, si ristabilì l’ordine in tutto il Paese. Oggi in molti si chiedono come mai l’atavico odio, nutrito per quasi un secolo e rinfocolato dai colonizzatori europei, esplose solo il 6 aprile del 1994 dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale. Il genocidio, in realtà, non fu improvvisato quella mattina, era in preparazione da tempo. Qualcuno sostiene che addirittura ad abbattere l’aereo furono gli hutu: cercavano una scusa per dare inizio allo sterminio di massa.
Il 18 dicembre 2008 il tribunale internazionale speciale istituito ad Arusha, nella confinante Tanzania, ha condannato all’ergastolo alcuni membri dell’ex governo di Kigali, tra cui anche il generale Bagosora, allora a capo del ministero della Difesa ruandese, ritenuto il principale ideatore del genocidio. L’inizio di una stabilità sociale nel Rwanda ha favorito, già dal 1995, una notevole crescita economica: oggi il Paese africano – sebbene avesse in precedenza un’economia piccola e prevalentemente fondata sull’attività agricola – ha un Pil che sfiora il 10 per cento e un’inflazione che si è stabilizzata al 3 per cento annuo. Ma il Rwanda vanta anche altri primati inimmaginabili: le donne ricoprono la maggior parte dei ruoli amministrativi; il 90 per cento degli abitanti ha l’assicurazione medica; un milione di poveri è stato sollevato dalla povertà e, soprattutto, il Rwanda ora è un Paese pacificato. Nonostante ciò, c’è chi denuncia l’autorità del presidente Paul Kagame in quanto i diritti, sia civili che politici, pare siano stati da lui ridotti. A oggi, però, circa un milione di rifugiati fuggiti negli Stati limitrofi è rientrato nei propri villaggi e la nazione appare come un Paese sicuro.
Attualmente è in atto un progetto denominato Visione 2020 per la lotta contro la povertà, che comprende anche la privatizzazione e la liberalizzazione delle attività imprenditoriali, allo scopo di raggiungere una crescita economica duratura. Le maggiori esportazioni del Paese riguardano caffè e tè. Quest’ultimo è considerato uno dei migliori al mondo, mentre il caffè, da solo, costituisce il 50 per cento del valore totale delle esportazioni. Negli ultimi anni si stanno facendo importanti investimenti nel turismo, nell’industria dei fiori e nella itticoltura. È recente la notizia che il RIPA (Rwanda Investment Promotion Agency) ha aperto le porte agli investitori stranieri. L’obiettivo è sempre lo stesso: dare stabilità duratura all’economia del piccolo Stato africano.
Nel Rwanda di oggi nessuno parla più di quei cento interminabili giorni dove fu seminata paura e morte senza tregua. Kigali è una città moderna, le nuove generazioni guardano al futuro con fiducia. La tecnologia è arrivata anche in questo angolo di Africa, i giovani passeggiano nei quartieri del centro con lo sguardo perennemente incollato al monitor di uno smartphone, mentre i pollici si muovono veloci sul vetro della tastiera touch. Sono alla ricerca di qualcosa di nuovo, senza però dimenticare la storia passata. Quella che si nasconde tra le mille colline.