Migranti. Una parola, due sfumature
«Sono vostra abbonata da lungo tempo (...). Provengo da una famiglia che ha sempre accolto i poveri con rispetto. Ho un figlio giovane laureato che non ha problemi di lavoro solo perché gli piace un settore di nicchia (ingegneria delle Reti). Scrivo perciò libera da pregiudizi rispetto agli stranieri e libera anche da preoccupazioni per mio figlio. Sento il bisogno di esprimere la contrarietà che ho vissuto in occasione dell’ultima giornata dei migranti, alle preghiere dei fedeli, legittimamente tutte indirizzate in favore di questi poveri sventurati. Però sarebbe stato opportuno inserirne almeno una per i nostri migranti, realtà purtroppo attualissima che mina il nostro Paese alle radici e per il futuro: tanto tra i pensionati quanto tra i giovani, sono in molti che si vedono costretti a emigrare, con tutti i disagi da soffrire che ne conseguono. Rifletto anche che questa mancanza di par condicio da parte della Chiesa, pur con tante sante ragioni, finisce per creare un distacco religioso che è evidente nelle nostre chiese, e suscitare sentimenti di chiusura, altrimenti inediti in noi veneti. (...) Non si può amplificare la considerazione per gli estranei, per quanto provati, se manca almeno una pari attenzione alle sofferenze delle nostre famiglie. Cordialmente». Lettera firmata
È sempre molto arrischiato, e talvolta persino scorretto, procedere a paragoni che pretendano di confrontare tra loro due realtà solo in minima parte simili. Con una sola parola che sembra tutto dire, ma ben poco chiarire e distinguere. Atteggiamenti, questi ultimi, invece, necessari: se non vogliamo fare di tutta un’erba un fascio. Naturalmente è del tutto comprensibile che ognuno di noi tenda ad assolutizzare la propria situazione: il mio mal di denti di questi giorni, beh, per me è il male del secolo! Ma guardarmi attorno mi serve a relativizzarlo: non è meno doloroso, ma paragonato a ben altri mali diventa persino un po’ più sopportabile.
Così, se pur usiamo la stessa parola, emigrazione, sia per i poveracci che rischiano la vita per entrare in Italia sia per i nostri giovani che se ne vanno all’estero in cerca di un’occupazione migliore o comunque coerente con il loro curriculum di studi, dobbiamo però essere consapevoli che se negli effetti la medesima parola sembra indicare lo stesso esito (qualcuno se ne va dal proprio Paese cercando fortuna in un altro), la realtà è nella concretezza assai diversa. È una questione di giustizia e di rispetto della dignità delle persone. Il che, ha ben ragione la nostra lettrice, non significa che da entrambe le parti non ci sia sofferenza da vendere. O che la cosiddetta fuga dei cervelli (e ogni giovane, anche non laureato, lo è) non sia un problema serio per il nostro Paese. Ma i nostri partono con la comodità di un biglietto aereo in tasca, la certezza che, magari non troveranno lavoro, ma saranno trattati secondo diritto. E potranno sempre tornare indietro, lì dove hanno una casa e una famiglia che li accoglierebbe.
I disperati che scappano da guerre, persecuzioni e fame, e attraversano il mare su una carretta, se sono ancora vivi a quel punto, non sanno nemmeno se lo saranno domani. E sanno che li aspetta diffidenza, odio, difficoltà di ogni tipo, spesso una vita più indegna di quella che vivevano nei loro villaggi. Consci che alle loro spalle non hanno più… niente a cui tornare! Dividere una torta, anche fatta di «attenzioni» e «preghiere», in fette uguali tra persone o situazioni molto diseguali, è far torto a tutti. Sulla nostra rivista abbiamo scritto spesso di emigranti dalle zone povere del mondo, ma anche del problema dei giovani che se ne vanno dall’Italia. Oltre a continuare a pubblicare mensilmente il «Messaggero di sant’Antonio. Edizione per gli italiani all’estero». Per non dimenticarci di nessuno, ma soprattutto di coloro di cui tutti gli altri si dimenticano.