Paolo Benanti: «digital age», «A.I.» e altre amenità
La sua vita pareva instradata lungo tutt’altro percorso: solida formazione scientifica, studi di ingegneria. Ma l’imprevedibile ha fatto irruzione nella sua esistenza e ha fatto di lui un esempio vivente di come scienza e fede non solo possano essere in costante dialogo ma, anzi, si completino a vicenda in un rimando che può generare frutti di bene. Stiamo parlando di fra Paolo Benanti, religioso francescano ma anche studioso ed esperto tra i più apprezzati a livello internazionale nel vasto campo delle cosiddette «intelligenze artificiali».
C’è stato un punto di non ritorno?Quando una via finisce e ne inizia un’altra c’è sempre una sorta di incrocio o di piazza. Anche nel nostro caso è avvenuto così. Il nostro incrocio è l’esito delle scienze del ’900, quando il concetto di spazio e di tempo assoluti teorizzati da Newton è stato messo in crisi dalla ricerca di molti scienziati, a cominciare da Albert Einstein che, con la sua teoria della relatività, ci ha fatto capire come il tempo sia una grandezza che dipende da altre grandezze. Quindi c’è stata la fisica delle particelle, con le scoperte di Max Planck, che ha fatto crollare anche la certezza relativa allo spazio assoluto a favore di un qualcosa che stiamo ancora cercando di capire (pensiamo alle ricerche sul bosone di Higgs). E poi la via della conoscenza scientifica, all’improvviso, ha incontrato un’altra via, quella dell’informazione. È avvenuto a partire dagli anni ’50, nei laboratori americani della Bell Labs, dove si è iniziato a teorizzare l’informazione, grazie a Claude Shannon. L’informazione è diventata così la via per fare cose che in precedenza si realizzavano col metodo scientifico.
Cos’è la via dell’informazione?Faccio un esempio. Prima, la ricerca sull’universo veniva effettuata attraverso la ricerca scientifica, oggi viene eseguita attraverso radiotelescopi che cercano dati, cioè informazioni, i quali vengono messi insieme e rielaborati dai computer. La stessa biologia è cambiata, da quando, nel ’53, James Watson e Francis Crick hanno iniziato a pensare che la vita fosse legata a un «qualcosa» che codificava l’informazione e hanno scoperto la struttura del Dna: da quel momento in poi «vivo» è tutto ciò che elabora e codifica informazioni mediante questa serie di basi azotate. Quindi, la via dell’informazione è quella in cui tutti ci siamo incanalati. E questo secolo si è aperto nel segno di una nuova capacità della macchina: essere intelligente.
Come possiamo prevedere si evolverà il rapporto essere umano – tecnologia? Il punto è proprio questo. Avvertiamo il malessere del cambio di un’epoca, ma ancora non sappiamo che cosa accadrà. Abbiamo abbandonato una sponda, incominciamo a intravedere il nuovo approdo, ma se esso sarà periglioso o sicuro dipenderà da come noi costruiremo le macchine con cui ci relazioniamo.
In quale ambito si giocherà, secondo lei, la sfida?L’intelligenza artificiale non avrà un ambito specifico, ma cambierà il modo in cui facciamo tutte le cose. È una tecnologia general purpose, come la corrente elettrica. Ed è questa la sfida che più disorienta. Perché è difficile pensare a come noi potremo abitare un mondo completamente diverso da come oggi lo conosciamo.
L'intervista integrale è pubblicata sul Messaggero di sant'Antonio di marzo 2019 e nella versione digitale della rivista. Provala subito!