Dilemmi di un pastore d’anime
Siamo ad Albany, la capitale dello Stato di New York. C’è un pastore d’anime, il reverendo Toller (Ethan Hawke), che sta preparando i festeggiamenti per il 250° anniversario della sua chiesa, la prima chiesa riformata di origine olandese, che dava rifugio agli schiavi in fuga. Ora i fedeli sono pochi, l’organo non funziona, i servizi sono guasti, le lapidi tombali cadono a terra. Il tempio è diventato un museo per la vendita di gadget. Toller è un vicario malato nel corpo e in crisi interiore. Il tormento esplode incontrando una coppia di ambientalisti. Lei, Mary (Amanda Seyfried) è incinta; il compagno vorrebbe che abortisse, perché il mondo sarebbe diventato invivibile sul piano ecologico e morale. La relazione tra il reverendo e Mary s’intensifica. I sentimenti di sconforto e rabbia generano in Toller ideazioni aggressive, verso di sé e verso la società, come se il sangue del sacrificio potesse redimere un dilagante peccato. Esiste un’alternativa? Ci si può fidare dell’amore? È lecito sperare nel futuro?
Per capire meglio questo film occorre fare qualche passo indietro. Diario di un curato di campagna (1936), il capolavoro di Georges Bernanos (1888-1948), ritrae l’umile, disarmata, tenace opera di un prete cattolico, il quale ha «accettato una volta per sempre la terribile presenza del divino nella sua vita» (così ne parla lo stesso scrittore). Contro l’ostilità di una parrocchia «divorata dalla noia», contro l’ipocrisia di uno sperduto villaggio delle Fiandre, contro il cancro allo stomaco che lo tormenta, il giovane curato d’Ambricourt racconta in prima persona gli incontri mondani e i dilemmi interiori, i suoi patimenti e le speranze («scrivo come soffro e come spero» dirà Bernanos).
Nel 1950 il grande regista Robert Bresson porta sugli schermi, con lo stesso titolo, il racconto di Bernanos. È un bianco e nero indimenticabile, che rappresenta il manifesto del minimalismo cinematografico e non perde la drammaticità del testo originario. Bresson offre la forma adatta per rappresentare i dilemmi spirituali e l’impegno sacrificale del protagonista. Lo stile espressivo è sobrio, contenuto, povero. Si allude al soprannaturale muovendo dal reale, da umili particolari, da dettagli ricorrenti (scrittoio, carta, penna, mano, calamaio), che accostano le metafore del corpo (la malattia) a quelle dello spirito (la lotta impotente, la domanda disperata) e che legano costantemente la vocazione religiosa con il dovere della scrittura.
La lezione di Bresson è oggi ripresa da Paul Schrader, nato in Michigan nel 1946. Il protagonista di First Reformed affronta da solo i suoi compiti e ce li racconta attraverso un meticoloso diario, tenuto per un anno intero, rigorosamente, senza concedersi cancellature. «Ho deciso di tenere un diario scritto a mano, tutti i giorni per un intero anno, soffermandomi su ogni parola […] per ricordare tutti i pensieri e gli eventi senza nascondere niente. Quando si scrive di se stessi non bisognerebbe avere nessuna pietà».
La proposta radicale del regista riguarda lo stile. La macchina da presa è implacabilmente concentrata a rintracciare gli indizi attuali di una verità arcana e a memorizzarne i minimi dettagli simbolici (la biro e la grafia in stampatello; il sangue e la perdita di liquidi; il bianco accecante della chiesa e gli interni spogli e puliti di case silenziose). Ogni parola ed evento è sottoposto a una domanda inquieta, che nel film viene messa in bocca al giovane scoraggiato dall’idea di paternità. «Dio ci perdonerà?». «Non lo so – è l’amara risposta del pastore –. Nessuno conosce i pensieri di Dio. Ma possiamo scegliere, la grazia è sopra di noi». Lo stile «trascendentale» spoglia i fotogrammi di ogni orpello (le inquadrature si umiliano fino a diventare quelle di una telecamera di sorveglianza), rifiuta la retorica delle immagini, del montaggio e della recitazione sontuosa, sfida le icone pubblicitarie, conformiste e logorate dall’uso mercantile (così come l’ambiente stesso è rovinato da un cieco mondo industriale, di cui respiriamo l’aria fetida), a costo di intraprendere vie inverosimili, oniriche (come la levitazione stellare dei due protagonisti, stretti da un abbraccio affettuoso).
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