Genitori ultras o supporter?
Capita sempre più spesso di trovarselo a fianco, il «genitore ultras», a bordo campo per la partitella dei pulcini. I casi più gravi travalicano per arrivare anche sulle pagine della cronaca, giustamente, perché creano scandalo, in quanto non dovrebbero accadere. E riguardano ormai non solo i papà, e non solo il calcio, visto che pressoché tutti gli sport di squadra risultano coinvolti: pallacanestro (vedi il riquadro alla pagina seguente), pallavolo, pallanuoto... Neppure il rugby, che legittimamente si fa un punto d’onore nel presentarsi come sport «etico», è preservato. Come siamo arrivati a questo livello? I professionisti della lamentela sono già pronti a intonare il peana dell’imbarbarimento generale dei costumi, ma è un approccio che non convince, e oltretutto deresponsabilizza.
Prevenire gli incendi
«Gli incendi ci sono e possono scoppiare. La domanda è: vogliamo impegnarci a prevenirli?». A interpellarci è Roberto Mauri, psicologo autore di Genitori a bordo campo (In dialogo 2013). Il sottotitolo – Passione sportiva istruzioni per l’uso – la dice lunga sull’approccio concreto e pratico, che necessita però un inquadramento previo.
«Solo le ultime due generazioni di genitori investono così tanto sullo sport. Si calcola che circa una famiglia su due segua sistematicamente tutte le settimane partite e allenamenti del figlio. Una volta non era così! Ma è cambiata la cultura genitoriale, il modo di viversi come genitore. In Italia i bambini sono talmente rari che quei pochi sono caricati di attese specialissime. È obbligatorio che il piccolo sappia l’inglese ancora prima di nascere! Il figlio ha un valore affettivo inestimabile e “deve” avere successo; per mamma e papà, ne va della loro stessa reputazione. Ecco che lo sport dei figli diventa territorio privilegiato in cui i genitori verificano anche se stessi. Lo sport è un linguaggio simbolico molto efficace, è il modo in cui gli adulti dicono “ti voglio bene. Sto con te. Condivido il tuo sudore, le tue fatiche, i tuoi desideri”. E i figli rispondono. Durante la partita, anche loro buttano l’occhio per cercare di capire se il papà e la mamma stanno guardando, se hanno espressioni positive, se sono in grado di renderli in qualche modo contenti di quanto stanno facendo… In definitiva: lo sport è il palcoscenico privilegiato dove vengono messe in scena le relazioni tra genitori e figli. Ci rendiamo conto della delicatezza della cosa?».
Non molto, per dire la verità. Sembra che le prime a esserne scarsamente consapevoli siano le società sportive, che a loro volta patiscono il cambiamento sociale, e per lo più devono ancora riposizionarsi. «Il mondo sportivo – commenta Roberto Mauri – si continua a pensare come a parte, autoreferenziale. È come se dicesse: “Non disturbate, qui c’è gente che lavora”. Quando in realtà il rapporto con i genitori è diventato strategico».
Viene in mente Paolo Pulici, cannoniere del Torino anni Settanta e oggi allenatore di una scuola calcio, che al «Corriere della Sera» provocatoriamente confessò: «La mia squadra ideale è una squadra di orfani»…
Da utenti a sostenitori
Negli incontri di formazione con dirigenti e allenatori, Mauri intavola il discorso domandando: «Chi sono i genitori per te?». Cinque le possibili risposte. Il livello più basso è quello già descritto: sono una scocciatura. Quando hanno pagato l’iscrizione, rispettato gli orari di convocazione e portato il bambino, grazie e arrivederci. Un passo oltre: i «genitori-utenti». Con loro instaurerò un rapporto burocratico, da gestore di servizi, informale. Terzo stadio, i «genitori-clienti», ai quali mi approccio con un rispetto diverso, cominciando a interrogarmi sulle esigenze. Si fa più sul serio con i «genitori-partner», nel senso di «soci». Spiega lo psicologo: «Salire i vari gradini significa anche mutare lo stile di comunicazione. A un utente mando un avviso, a un cliente una proposta, con il partner lavoro sul confronto. La meta è il “genitore-sostenitore”, un portatore di interesse per me prezioso non solo in caso di necessità». Restando nel linguaggio sportivo, peschiamo dall’inglese il termine supporter, l’appassionato che, per l’appunto, supporta la squadra, molto meglio del medicalizzato «tifoso», malato di tifo…
Devono lavorare le società, ma devono lavorare su se stessi anche, e non poco, i genitori.
Roberto Mauri suggerisce alcuni «allenamenti»: «Innanzitutto è necessario che papà e mamma si interroghino sulle aspettative, non tutte adeguate. Sono legittime le attese che vanno nella direzione della crescita del ragazzo. Diventa questo il fulcro del dialogo da instaurare con allenatori e dirigenti, ai quali porre non domande sportive, ma educative: mio figlio è puntuale? È rispettoso? Si sa comportare in maniera autonoma? È capace di stare in amicizia con gli altri?».
Ancora più tosto il secondo esercizio proposto dall’esperto: «Lo sport offre al genitore la grande opportunità di stabilire la giusta distanza tra sé e il figlio, che a sua volta sta vivendo un percorso di emancipazione e autonomia. L’esempio è quella maledetta, insuperabile riga del campo che divide me papà dal figlio. Quanto vorrei entrare in campo e aiutarlo, stare con lui, dribblare o segnare al posto suo… Ma non si può, pena la sospensione della partita. Devo per forza fidarmi di mio figlio. Spero faccia quello che abbiamo provato mille volte insieme, che tiri dritto come gli ho raccomandato, ma poi tocca a lui, non c’è alternativa. Già, non lo si dice mai abbastanza: lo sport dei figli fa bene ai genitori».
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