Kosovo, terra antoniana
Avviso sul display del mio cellulare: «Benvenuto in Slovenia». Dove sono atterrato? Ero certo di essere appena arrivato in Kosovo… Il Paese balcanico incastrato tra l’Albania e la Serbia, tra la Macedonia e il Montenegro, indipendente da appena otto anni, infatti non ha una sua compagnia telefonica. Per i numeri fissi, e questo è peggio, siamo in Serbia, il Paese che non vuole avallare l’indipendenza della sua antica provincia. Su 193 Paesi delle Nazioni Unite, 115 lo riconoscono. Oltre la Serbia, mancano la Russia, la Cina e cinque Stati dell’Unione europea (Spagna, Grecia, Slovacchia, Romania e Cipro). E tuttavia, il Kosovo esiste.
Ora sto percorrendo la nuova autostrada che collega Pristina a Tirana: sto andando a Gjakovë, nell’Occidente. A trovare Shën Ndout, sant’Antonio e i suoi frati.
Nessuno dimentica: qui, nel 1999, in tre mesi osceni si combatté l’ultima, spaventosa, guerra del Novecento, l’ultima guerra balcanica. Tra la guerriglia indipendentista e l’esercito serbo. Ottocentomila albanesi kosovari in fuga, feroce pulizia etnica, intervento Nato, 78 giorni di bombe sulla Serbia.Una piccola guerra perfetta che perfetta non fu: oltre 13 mila vittime, in gran parte civili albanesi, 20 mila donne stuprate, migliaia di scomparsi, oltre 1.600 mai ritrovati – mille e più albanesi, cinquecento serbi –. Infine, un accordo disperato che sancì il controllo Onu sul Paese. È la secessione del Kosovo dalla Serbia. Controesodo della minoranza serba.
Cosa so del Kosovo? Vi vivono poco più di 1 milione e 800 mila abitanti in un territorio grande come l’Abruzzo. È la popolazione più giovane d’Europa: un terzo sono bambini e ragazzi sotto i 14 anni, il 54 per cento della popolazione ha meno di 29 anni. Il 60 per cento di loro non ha lavoro. Il 34 per cento dei kosovari sopravvive con meno di un euro e mezzo al giorno. Il 17 per cento del Pil nazionale proviene dalle rimesse degli immigrati. I kosovari albanesi sono il 92,9 per cento, mentre i kosovari serbi appena l’1,5 (ma i serbi hanno boicottato quel conteggio: dovrebbero essere attorno al 5). I musulmani sono il 95,6 per cento, i cattolici il 2,2 (poco meno di 70 mila).
È il Paese di Madre Teresa (nata nell’attuale Macedonia, sua madre è kosovara), i suoi ritratti e le sue statue sono ovunque.
Il Santo da toccare di Gjakovë
Ho bisogno di tenere a mente questa folla di numeri e questo intrico di storia mentre arrivo a Gjakovë. Città di provincia, terra cattolica: nel senso che qui vi sono villaggi interamente cattolici e 6 mila fedeli su 100 mila abitanti. Trovare la chiesa, dedicata a Pietro e Paolo, è facile: il suo doppio campanile è alto 65 metri. Di fronte alla grande chiesa, dietro un cancello, quasi nascosto, ecco la kisha e Shën Ndout, il piccolo santuario di Sant’Antonio. Accanto, il convento dove vivono quattro frati.
A Pristina, giorni dopo, Lush Gjergji, 67 anni, piccolo di statura ed energico, vicario del vescovo, prete amato in Kosovo, mi spiegherà: «Sant’Antonio è il santo più popolare. Venerato dai cattolici, ma a lui si rivolgono anche i musulmani. I francescani non hanno mai abbandonato il Paese, hanno resistito a cinque secoli di occupazione turca. Hanno difeso la lingua e la cultura albanese. E questo il nostro popolo lo sa».
Ndue Antonio Kajtazi, 48 anni, è il rettore del santuario. Sorride e offre raki, forte e buona acquavite delle sue campagne: «Sant’Antonio è il numero uno. Siamo cresciuti nel suo culto. È l’amico capace di ascoltare ogni preghiera».
Fu un francescano trentino, Emilio Gabos, nella seconda metà dell’Ottocento, a costruire qui la prima cappella dedicata al Santo. Nel 1931, con donazioni di cattolici e musulmani, fu possibile edificare il santuario: al martedì, giorno del Santo, è meta di un andirivieni incessante di fedeli. Arrivano a coppie. Fino a buio. Vengono uomini, donne. Ragazzi e ragazze. Accendono candele di sego. Lasciano un’offerta.
Abnora, 26 anni, viene da Zym, un villaggio delle colline. Vive accanto a una grande chiesa. Insegna storia dell’arte a Prizen. «Dicono che il Santo compia tredici miracoli al giorno e allora si va a trovarlo, a parlare con lui. Non ha importanza se sei cattolico o musulmano». Tra marzo e giugno, nei Tredici martedì di sant’Antonio, a Gjakovë arrivano migliaia di pellegrini. Metà della gente di queste campagne vive all’estero, sant’Antonio è una buona ragione per tornare, per venire a trovare i parenti.
Antonio si è scelto una bella terra per farsi amare.
Il reportage completo è pubblicato nel numero di novembre della rivista e nella sua versione digitalizzata.