La Taranto dei fumi e dei venti
«Non ti spaventare». Salvatore, a notte appena cominciata, mi guida nel deserto delle strade del quartiere Paolo VI, periferia interna di Taranto. Mi avverte: «Questo è un quartiere difficile». Nessuno per strada. Solo un cane nero. Palazzi a parallelepipedi. Benvenuti nella città della Fabbrica, la città abbandonata. Subito dopo abbandono, Salvatore usa la parola desolazione. Non c’è un bar, non ci sono veri negozi, non c’è un circolo. Tra i casermoni di Paolo VI, c’è solo la chiesa, una parrocchia dei francescani.
Quartiere nato dalla Fabbrica. Nato negli anni ’60. Oggi ha 40 mila abitanti. Paolo VI venne a benedire il cantiere. Aveva celebrato la messa di Natale del 1968 dentro la Fabbrica. Altri tempi. Allora, l’Italsider era il futuro. E il quartiere fu costruito studiando la rosa dei venti. I fumi, qui, a sentire gli ingegneri, non avrebbero dovuto arrivare. Che avvelenino Tamburi e Statte.
Devono essersi sbagliati o i venti devono aver girato: a leggere un’indagine, resa nota ai primi di ottobre, del Centro di Salute e Ambiente della Regione Puglia, qui la mortalità per tumori ai polmoni è superiore del 5 per cento rispetto a quartieri più lontani dalla Fabbrica. Gli infarti al miocardio sono più numerosi del 10 per cento. I ricoveri dei bambini per malattie respiratorie del 26 per cento. Più alti, perfino, di quelli del quartiere Tamburi, che sorge proprio sotto le ciminiere.
Linguaggio burocratico della Regione Puglia: «Esiste causa-effetto fra emissioni industriali e danno sanitario». Più esplicitamente: c’è «una connessione diretta fra aumento della mortalità per tumore e malattie cardiovascolari, respiratorie e i picchi di innalzamento della produzione» della Fabbrica.