La disabilità si può curare?

Identificare la disabilità con la malattia è, in parte, una falsità scientifica. Si continua infatti a inserirla in una visione ospedalizzante e limitata, perpetuando una visione della realtà a compartimenti stagni.
01 Ottobre 2016 | di

«La salute non è un bene di consumo, ma un diritto universale per cui l’accesso ai servizi sanitari non può essere un privilegio. (…) Oggi non è un diritto per tutti, ma piuttosto è ancora un privilegio per pochi, quelli che possono permettersela».

Ancora una volta papa Francesco è riuscito a scombinarmi le carte. Ho letto questa dichiarazione in occasione della proposta di don Dante Carraro di trasformare la Giornata mondiale del malato dell’11 febbraio, nella «Giornata per l’accesso alle cure per tutti». Una bella rivoluzione, non solo perché tutti possano essere curati dignitosamente, indipendentemente dalle proprie origini o condizioni sociali, ma anche per tutto quello che ruota attorno alla parola e al concetto di malattia.

Ascoltando questo appello, mi domando: che fine farà la mia consueta battuta? Mi spiego meglio. Negli anni sono stato invitato spesso a manifestazioni, incontri e convegni. Tra questi, un appuntamento fisso era proprio la suddetta Giornata del malato. In quelle occasioni mi misuro la febbre: se ce l’ho, ovviamente non ci vado; se non ce l’ho, non sono ammalato e quindi non ci vado.

Identificare la disabilità con la malattia, oltre a essere, in parte, una falsità dal punto di vista scientifico (ne è piuttosto, talvolta, la conseguenza e non la causa), è infatti controproducente.

Lo è dal punto di vista dell’immagine in cui vedremo ancora la disabilità inserita in una visione ospedalizzante e limitata, lo è dal punto di vista delle ricadute culturali e sociali che questo comporta, dove finiremo per offrire uno sguardo a compartimenti stagni della complessità che ci circonda.

Parlare finalmente di «cure accessibili a tutti» significa ampliare il discorso, significa partire da una categoria per toccare l’insieme, e ciò vale per la disabilità come per tutto il resto, così come sottolinea papa Francesco quando ci parla della differenza tra bene di consumo e privilegio.

Questo pone in campo questioni importanti, le quali svelano pregiudizi sottesi che possono attraversare il binomio disabile-malato, ma anche povero-straniero, ricchezza-istruzione e potremmo continuare all’infinito. Ci sono poi le paure inconsce, come la paura del contagio. Mischiare presenze di potenziale sovvertimento dell’ordine precostituito spaventa: finirebbe per rendere evidente un’appartenenza comune e soprattutto per minare le nostre sicurezze economiche e il nostro sistema di valori.

La situazione è, a oggi, decisamente migliorata per quanto riguarda questo pregiudizio, ed è normale incontrare persone disabili nella sala d’attesa di uno studio medico o dal dentista.

Quello che ancora persiste è l’influenza dell’approccio culturale. Se guarderemo agli altri proponendoci con una cultura aperta e inclusiva, così come la nuova nomenclatura della Giornata del malato ci propone, sarà la cultura stessa che finirà per influenzare la qualità della vita, al di là delle basi di partenza. Conosco disabili ricchissimi, ma emarginati, e viceversa. I nomi sono importanti; è bene non lasciare nulla al caso per non incorrere in una mancata o scorretta visibilità. Cambiarli è la presa in carico di una responsabilità.

Detto questo, sono proprio curioso di sapere se alla prossima Giornata del malato dovrò ancora provarmi la febbre. Se non ce l’avrò, questa volta mi toccherà andare! E voi cosa ne dite? Disabilità fa rima con infettività? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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