Un caffè per il Parkinson

Un caffè, ma soprattutto un punto di riferimento per i malati del morbo neurodegenerativo e per i loro familiari. È l’esperimento pilota nato ad Arzignano, nel Vicentino, su modello nordeuropeo.
30 Agosto 2016 | di

Se non fosse per la scritta sulla porta, l’impressione sarebbe quella di entrare in un allegro bar di quartiere. «Parkinson café» recita l’insegna all’ingresso. Ma di malattia – a un primo sguardo – non sembra proprio esserci traccia. Ampie vetrate luminose, l’aroma un po’ invadente del caffè, il profumo zuccherino dei pasticcini schierati su due tavoli rotondi. E poi il colore. Giallo come il parquet, verde sulle sedie, arancione per i divani. Un salotto in piena regola che accoglie ogni giorno una trentina di persone. Uomini e donne, anziani e non, malati, familiari e volontari. Al primo «Parkinson café» d’Italia il morbo neurodegenerativo scoperto dal medico inglese James Parkinson a inizio Ottocento si combatte a suon di chiacchiere, sorrisi e attività di gruppo.

Come una seconda casa

Siamo a pochi passi dalla stazione ferroviaria di Arzignano, un paese dell’ovest vicentino che deve la sua fama all’industria della concia. Al piano terra di una palazzina nuova di zecca la Fondazione Silvana e Bruno ha realizzato una seconda casa per gli oltre duecento parkinsoniani (in tutta Italia il numero sale a 120 mila) che abitano il territorio dell’Ulss 5 (Alto vicentino). Pochi metri quadrati – una sala d’ingresso, un ufficio e una palestra – che, inaugurati il 20 febbraio scorso, hanno attirato già una ventina di malati, altrettanti familiari, più otto volontari e due chinesiologi (esperti di scienze motorie). A fare gli onori di casa è Silvana, la stessa che ha prestato il nome alla Fondazione, nonché moglie di Bruno Mastrotto, che col Parkinson convive da circa quindici anni.

L’idea (nata nel 2014, su ispirazione nordeuropea) di aprire un «Parkinson café» viene dunque da un’esigenza personale: «Creare un luogo di ritrovo in cui i malati ma anche le mogli e i figli possano svagarsi, raccontare le proprie esperienze e scoprire che non sono soli» spiega Silvana. Per quanto si tratti di una patologia senza ritorno, «col Parkinson si può convivere bene anche per molti anni – continua la figlia Giovanna Mastrotto, presidente della Fondazione –. Ma per farlo servono terapie mirate al malato e un supporto psicologico rivolto a tutta la famiglia». Niente di meglio di uno spazio caldo e accogliente per metterli in atto.

Amici nelle avversità

Al numero 107 di via Arciso Mastrotto è una mattina come tante altre. Fuori soffia un vento freddo e decisamente poco estivo, ma dentro al caffè si respira un’atmosfera calda e intima come quella di casa. Fiorella, ex dirigente scolastica, è la più esperta dei volontari. Seduta al tavolo, sorseggia un espresso e con la mente vola al settembre scorso quando, fresca di pensione, decise di «arruolarsi» nell’organizzazione con incarichi amministrativi e di accoglienza. Al suo fianco ci sono due nuove reclute: Roberto, pensionato ex operaio metalmeccanico, e Anna che, per la verità, conserva ancora un lavoro part time come insegnante alle superiori. Occhi negli occhi, il team ripassa gli impegni della settimana e confabula con Leonia, che ha appena portato suo marito al corso di attività motoria. «Qui stiamo bene, mentre aspettiamo che i malati finiscano – cantilena la signora con un simpatico accento vicentino –. Chiacchieriamo e ci offrono pure il caffè».

La porta d’ingresso intanto non trova pace. Entra Walter, 62 anni, un passato da impiegato commerciale e tanta tenacia in volto. Mentre aspetta il secondo turno in palestra (ogni turno coinvolge circa otto malati e dura un’ora), ripercorre il momento in cui i medici, quattro anni fa, gli diagnosticarono la malattia. Da allora sono seguiti blandi corsi in palestra pressoché inutili e un mare di incertezze. Poi la svolta a febbraio. «Da quando frequento il “Parkinson café” mi sento più attivo e leggero, più sciolto nei movimenti» conferma. Merito dello stretching, degli esercizi con palla e tappetino. Ma merito anche del rapporto umano: «Qui è una fratellanza. In pochi mesi ho già fatto amicizia con molti pazienti nella mia stessa situazione».

Il morbo, ancora a uno stato iniziale, gli ha fatto nel frattempo un grande regalo: «Con l’insorgere della malattia ho scoperto un inedito lato artistico. Ora dipingo in continuazione. Tele. Con colori a olio. E pensare che in vita mia non avevo mai preso in mano un pennello!». Pochi metri più in là il ritratto di Bruno Mastrotto appeso in ufficio – dono di Walter alla Fondazione Silvana e Bruno – sembra quasi sorridere al suo artefice. È un intarsio di colori ed energia. La stessa che il pittore continua a sprigionare quando la sera suona il sassofono in una band o quando – scoccate le 11 della mattina – si alza dalla sedia del caffè in direzione palestra. 

L'articolo completo nel numero di settembre del «Messaggero di sant'Antonio» e nella versione digitale della rivista.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017
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