Il Museo risorto di Aleppo
Se avete già letto della riapertura del Museo Nazionale di Aleppo sui quotidiani a fine ottobre e vi state chiedendo che cosa è cambiato da allora per l’istituzione siriana, la risposta è: nulla. E già questa è una gran bella notizia. Non solo perché 20 mila reperti archeologici, dopo sei anni di latitanza, sono tornati a mostrarsi al pubblico. Ma anche perché quelle opere preziosissime, ancora integre, testimoniano l’orgoglio di un popolo che non si è mai piegato agli orrori della guerra. Una civiltà antica quanto l’uomo, che ha saputo ricominciare.
Mentre scriviamo, infatti, Aleppo sta tornando lentamente alla normalità, per quanto di normalità si possa parlare (i recenti attacchi a Idlib confermano ancora una volta la situazione di grave precarietà in cui si trova il popolo siriano). I bambini hanno ripreso la scuola, alcune attività commerciali stanno alzando le serrande. E il Museo archeologico è ancora lì, aperto e riabilitato, grazie al programma di sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP, United Nations Development Programme) in Siria, al governo giapponese, che ne ha finanziato in parte la rinascita, e grazie soprattutto alla volontà dei siriani, da sempre consapevoli della centralità della propria terra, culla di religioni e alfabeti.
Ma per capire davvero i sacrifici e le peripezie che la riapertura del Museo Nazionale di Aleppo ha comportato, dobbiamo andare indietro nel tempo, al 2013, quando la guerra incombeva sulla città siriana, allora sotto una pioggia di bombardamenti e il costante pericolo di attacchi terroristici. «Il Museo si trovò quasi sulla linea del fronte» racconta Giacomo Negrotto, partnership development UNDP. Memore degli scempi compiuti dall’Isis in Iraq negli anni precedenti (in primis a Palmira, nel 2015), lo staff del Museo optò per un’impresa disperata pur di salvare le proprie radici. «Il perimetro del museo venne blindato con sacchi di sabbia. Circa 20 mila opere vennero caricate su autotreni e trasferite in parte all’Università di Aleppo e, i pezzi di maggior valore, nei sotterranei del Museo di Damasco – ricorda ancora Negrotto –. Fu un vero esodo! Un viaggio di circa 500 chilometri, percorrendo strade secondarie e schivando di poco il fronte dei jihadisti e dei ribelli». Nel frattempo, la struttura portante del Museo archeologico ha resistito. A dispetto dei colpi di mortaio, dei razzi e delle sparatorie che ne hanno invece danneggiato l’interno.
Sei anni dopo, per l’istituto siriano era ora di risorgere. «Una volta accertato che i danni subiti dall’edificio erano inferiori al 30 per cento, abbiamo deciso di procedere con la riabilitazione: il termine non è casuale, perché a oggi, in Siria, le Nazioni Unite non possono ancora ricostruire nulla» continua il funzionario. I lavori di riabilitazione, dunque, durano qualche mese per un investimento totale di 250 mila dollari e coinvolgono centocinquantatré abitanti che – a causa della guerra – hanno perso il lavoro. Si tratta perlopiù di rimuovere i detriti e gestire i rifiuti accumulati in sei anni di conflitto. In cambio, queste persone ricevono un salario per tutta la durata dell’opera, ma soprattutto ritrovano pian piano la speranza. E intanto il Museo torna a nuova vita. «L’allestimento è stato riabilitato nel pieno rispetto di quello precedente, in un’ottica conservativa – precisa ancora il nostro interlocutore raggiunto al telefono –. Non è certo il momento di innovare! Del resto, pochi chilometri a ovest dal centro di Aleppo si continua ancor oggi a combattere. La settimana scorsa sono morte venti persone».
Viene da chiedersi perché, in una situazione di emergenza, con migliaia di case distrutte e il fronte ancora aperto, sia tanto importante investire denaro e risorse nella riapertura di un museo. «Il Museo nazionale di Aleppo è un simbolo – risponde Negrotto –, e i capolavori archeologici che contiene rappresentano l’identità stessa del popolo siriano». Un punto di riferimento da cui partire per costruire un futuro di pace. Il fermento di attività che stanno nascendo in seno al Museo, non è dunque un caso. Dal convegno internazionale organizzato in occasione dell’inaugurazione lo scorso ottobre, ai laboratori rivolti alle scolaresche che iniziano a frequentare l’edificio. «Per ora i visitatori sono soprattutto locali – conclude Negrotto –. Tra gli ospiti internazionali, ci sono stati giornalisti, rappresentanti di vari Paesi e qualche businessman». Senza contare il regista francese Olivier Bourgeois, che ha firmato il documentario The Museum ispirato alle traversie di un gruppo di curatori, archeologi e guardie museali che, in piena guerra siriana, hanno rischiato la vita per proteggere una delle più importanti collezioni archeologiche al mondo. Vi ricorda qualcosa?
L'articolo sulla riapertura del Museo nazionale di Aleppo e un approfondimento sui suoi tesori nel numero di marzo del «Messaggero di sant'Antonio» e nella versione digitale della rivista.