Il presidente del «Paese degli uccelli dipinti»
Fra un mese Pepe Mujica, ex-presidente dell’Uruguay (ed ex-guerrigliero, ed ex-prigioniero di una carcerazione spietata), compirà 85 anni. Due mesi fa, a Montevideo, ho compiuto un pellegrinaggio che in realtà era come una visita a un vecchio amico: sono andato a trovarlo, senza l’alibi di un’intervista. Volevo solo conoscerlo.
Non avevo un appuntamento ufficiale, un’amica aveva telefonato a un vicino del presidente e lui aveva fatto da intermediario. Insomma, come se telefonassi a un condomino di Mattarella: «Gli chiedi se posso passare da casa sua?».
Adesso Pepe è in isolamento (l’Uruguay non è immune dal Coronavirus), ha chiesto di essere sostituito al Senato (è il politico più votato del Paese, anche se il governo, dopo quindici anni, è andato alle destre): è vecchio, l’ex-presidente e la sua salute è malferma. Ha nove ferite da pallottole in corpo. Sta nella sua minuscola casa, nelle campagne di Montevideo, assieme alla sua compagna di vita e di lotta, Lucia Topolanski (come mi fa sorridere il cognome di questa donna coraggiosa).
Vi ho fatto questa lunga premessa solo per citarvi una frase di Pepe: «Molto di quello che sono viene dagli anni del carcere, sarei molto più frivolo, più superficiale», se non avessi vissuto quella prigionia. Il carcere di Pepe Mujica e dei suoi compagni Tupamaros non era una pur dura detenzione: era un orrore quotidiano, non erano detenuti, per dodici anni sono stati «ostaggi» in attesa di rappresaglia da parte di una dittatura. I militari non volevano ucciderli, volevano farli impazzire.
Quel che Pepe ci dice è che: da qualcosa di male, di terribile che ti accade, può nascere una nuova coscienza, una nuova forza, un nuovo coraggio.