Carceri e dintorni
Non ho esperienza del carcere, mi è andata bene, nonostante sia stato in mezzo a molte lotte e manifestazioni: ho passato solo due notti nella camera di sicurezza di un commissariato siciliano al tempo degli «scioperi a rovescio» (per chi non lo sapesse o non lo ricordasse, gli scioperi a rovescio erano quelli dei disoccupati che, non potendo scioperare dal lavoro, «scioperavano» lavorando, dedicandosi senza permesso – siamo negli anni Cinquanta dello scorso secolo – a lavori socialmente utili, come aggiustare una strada, ricostruire edifici disastrati...) e una notte di fermo dopo una manifestazione studentesca sessantottina.
Ma, avendo anche lavorato come assistente sociale, o come educatore in aree socialmente disastrate, ho avuto modo di entrare più volte nelle carceri, maschili e anche femminili e, soprattutto, minorili. Ebbene, quello che più mi angoscia mentre oggi scrivo, con la speranza che, al momento in cui queste paginette vedranno la luce sia passata la bufera del Coronavirus, non è di certo la mia condizione di vecchio (sono un fatalista e, come dice una vecchia canzone napoletana, «se ha da succedere, succederà») ma quel che leggo e sento delle rivolte e delle morti nelle carceri italiane. Sono una conseguenza anche questa del coronavirus, però più violenta, più estrema anche se marginale rispetto all’epidemia.
Immagino con fatica che cosa debba essere sentirsi chiusi, isolati rispetto ai propri cari, e tempestati dalle notizie e dagli appelli radio-televisivi, che finiscono per far sembrare l’epidemia l’occasione di un gran teatro più importante della stessa epidemia, una sorta di recita collettiva più invadente della realtà del pericolo. (Ricordo, appunto, da vecchio, che intorno al 1970 la febbre influenzale chiamata «asiatica» fece circa 5 mila morti: mi rendo conto della differenza con l’epidemia attuale, ma tuttavia...). E, dicevo, penso a quei carcerati che, inondati dalle notizie e afflitti dalla lontananza delle persone care, vivono insieme monotonamente in una cella ristretta in cinque, sei, sette, otto adulti, col bugliolo nell’angolo, l’uno accosto all’altro.
La claustrofobia è da sempre produttrice di paure e di angosce che non possono che crescere quando, «fuori», un pericolo di cui ci vien detta tutta la gravità, riguarda i nostri famigliari, i nostri affetti. L’esplosione (davvero imprevedibile?) delle rivolte carcerarie di questi giorni, che in poche giornate hanno fatto più morti del coronavirus nello stesso arco di tempo, ha qualcosa di angoscioso, che rimette in questione (o dovrebbe!) tante convinzioni superficiali sui carcerati, sui modi della pena, sul sistema carcerario in vigore, nel male e non solo nel bene, nel nostro Paese...
Dice il Vangelo, e ce lo dimentichiamo o facciamo in modo di dimenticarlo tutti i giorni: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra...». Ma non è questo che volevo dire, volevo soltanto ricordare, tra gli effetti del coronavirus, il panico di questa marginale ma non meno micidiale e imprevista conseguenza tra chi più di tutti ne risulta psicologicamente più che materialmente indifeso (anche se...). Oltre alla situazione delle carceri, mi angoscia quella di tutti i luoghi di costrizione, obbligata o volontaria, per migliaia e migliaia di persone, dai collegi ai conventi. Di loro si parla poco o niente, ma non è difficile immaginare, in questi giorni, l’ansia di chi ci vive.
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