Il lato oscuro di Instanbul
A Jesi, in provincia di Ancona, è in corso, presso il Palazzo Bisaccioni, una mostra fotografica dell’artista turco Coşkun Aşar, promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi, in collaborazione con il Comune di Senigallia. Un’esposizione carica di emozioni e di ricordi, di cose non conosciute appartenenti alla gente di Istanbul.
Arrivo il 2 giugno nella cittadina marchigiana, dopo una conferenza sul Medio Oriente a Roma. Jesi è anche la prima tappa della mia vacanza in bici, che si concluderà dopo una ventina di giorni a Ferrara. Lo ammetto: non vedo l’ora di visitare la mostra, ma anche di pedalare lungo la costa adriatica. La mostra è relativamente piccola. Le trenta fotografie esposte sono accompagnate da un filmato che illustra altre opere di questo artista, nato nel 1974 in Turchia. Le fotografie di Aşar parlano di una Istanbul che non potete vedere, conoscere, incontrare, sentire o avvertire quando fate i consueti giri turistici.
Al centro delle sue opere vediamo i bambini di strada, le lavoratrici del sesso transessuali, le trattorie frequentate dagli abitanti del quartiere e gli animali randagi. Nelle inquadrature sono immortalati momenti intensi: liti di strada, travestimenti in casa prima del lavoro, segni di violenza fisica, consumo di droga. Insomma, il titolo della mostra «Blackout. The Darkside of Istanbul» non potrebbe essere più azzeccato, considerando le immagini.
Tre quartieri, tante storie
Siamo nei cosiddetti bassifondi della megalopoli sul Bosforo, la città più grande della Turchia. Ci troviamo nel Municipio di Beyoğlu, tra Taksim, Tarlabaşi e Dolapdere. La zona in cui vengono «parcheggiati» gli ultimi della città: le persone emarginate, discriminate, escluse e private di molti diritti e opportunità. La prima cosa che la mostra di Aşar ci fa capire è che dentro Istanbul ci sono tante città.
La storia di questi quartieri è vecchia quanto Istanbul. Se dovessi riprenderla, dovrei usare come riferimento il 1535, cioè l’anno in cui si insediano le prime ambasciate europee nell’impero Ottomano. I diplomatici, pian piano, iniziano a risiedere in questi quartieri. Con il passare del tempo queste zone si popolano di cittadini non musulmani, prevalentemente occidentali. Vengono costruiti edifici dagli stili architettonici diversi, vengono tirate su chiese, palazzi del lavoro e residenze. I nuovi abitanti danno una nuova espressione a questi quartieri.
Ma questa stessa zona è teatro dei pogrom del 1955, organizzati contro le abitazioni e i negozi dei cittadini non musulmani. L’ondata ultra nazionalista orchestrata da alcuni parlamentari e gruppi politici di chiara ispirazione nazifascista fa sì che dopo un lungo periodo Taksim, Tarlabaşi e Dolapdere inizino a perdere i loro abitanti storici. Negli anni successivi, le case svuotate vengono occupate dai nuovi immigrati provenienti dall’Anatolia e dalle persone escluse dai salotti borghesi di Istanbul. Questa vasta area, sin a partire dagli anni ’60 non gode di una buona nomea e di certo non attira i turisti. Solo negli anni ’90 si assiste a un primo tentativo di «riqualificazione urbana» che porta necessariamente all’ennesima «pulizia».
Nel 2005 partono i primi lavori che prevedono la distruzione di 269 edifici, residenza e asilo per migliaia di persone. La zona interessata è di circa 20 mila metri quadri. Occupanti, abusivi, invisibili e poveri perdono tutto. Si assiste alla distruzione di un’area urbana che nella sua particolarità in qualche maniera «funzionava». Nonostante i mille problemi.
Tra le aziende appaltatrici ovviamente troviamo alcune di quelle – sono in tutto cinque – che hanno cementificato la Turchia in questi ultimi vent’anni attraverso il medesimo sistema: vincere regolarmente quasi tutti i bandi e costruire. Sono le aziende dai legami diretti con il partito al governo e con la famiglia del presidente della Repubblica, possiedono numerosi giornali, canali tv e radio. Insomma, fanno parte di quel sistema economico, politico e mediatico che ha consolidato l’attuale regime.
Nonostante mille ricorsi, diversi pareri contrastanti dei tribunali locali e delle associazioni di categoria, raccolta firme, denunce di Amnesty International e la rivolta popolare del Parco Gezi del 2013, queste zone subiscono i feroci colpi inferti dai progetti di «riqualificazione urbanistica». Nel 1998 Umberto Eco, in visita a Tarlabaşi, si fece fotografare tra le vie di questo storico quartiere. Eco ci ritornò nel 2013, stavolta con il suo bastone, in mezzo ai cantieri, in un quartiere che non si reggeva più in piedi. «Qui vengono distrutti troppi palazzi antichi. Si tratta di un caso che è ai limiti di un crimine»: così Eco descrisse la «cancellazione» della memoria e lo spostamento della popolazione locale.
Le persone che perdono le loro abitazioni o i loro negozi vengono «trasportate» fuori città, in quartieri fatti di palazzi recenti e giganteschi. Cittadelle satellite che sono dei veri e propri dormitori. Se ad alcune persone la soluzione è offerta gratuitamente, agli «occupanti» poveri, invece, non rimane che indebitarsi con le banche. Spesso, chi non riesce a trovare una sistemazione torna nei vecchi quartieri a vivere da occupante e invisibile.
Ritratti di invisibili
Le fotografie di Aşar, in bianco e nero, ci raccontano proprio gli ultimi abitanti di queste aree. Quelle persone nascoste a cui non è permesso, appunto, essere visibili. Tra questi, bambini orfani e abbandonati dalle famiglie, ragazzi poveri che trovano rifugio nell’uso di sostanze chimiche a basso costo e giovani che non riescono a uscire dal mondo della criminalità e ormai oggetto della violenza sistematica della strada.
Le inquadrature dell’artista sono a volte mosse e a volte invase dalla nebbia di una Istanbul fredda e notturna. Il movimento che cerca di fermare nelle sue immagini appartiene alla vita quotidiana dei protagonisti: fughe, liti, corse. L’inquinamento urbanistico e i locali invasi dal fumo sono gli elementi che accompagnano le persone che vivono gli spazi fotografati da Aşar. Le (poche) vecchie case rimaste in piedi, i volti segnati da vite vissute, le strade sporche, le persone ubriache, tutti questi soggetti ricordano le fotografie di un altro maestro che non vive più in questa terra, Ara Güler. In alcune zone del mondo i bambini crescono presto e le persone imparano a difendersi immediatamente. Güler, per tutta la sua vita, ha provato a raccontare queste caratteristiche, proprie di Istanbul e delle regioni anatoliche.
Tra gli scatti carichi di tristezza, notte, disperazione e stanchezza vediamo una forte attenzione verso le lavoratrici del sesso transessuali. Taksim, Tarlabaşi e Dolapdere sono luoghi in cui trovano una dimora, un lavoro e un rifugio. Persone spesso vittime dell’omotransfobia anche all’interno delle proprie famiglie. Secondo l’ultimo report dell’Ilga, la Turchia nel 2020 risulta essere il secondo Paese europeo nel quale la vita delle persone omo e transessuali è meno tutelata. La violenza politica, fisica, economica e mediatica nei confronti di queste persone è sistematica e diffusa in tutto il Paese.
Le fotografie di Coşkun Aşar sono calde, perché sono piene di umanità e, in un certo senso, di resistenza. Più conosciamo la vita dura di quella Istanbul non turistica, più riusciamo ad ammirare il vissuto e la forza delle persone che vivono ai margini di questa metropoli. Attraverso le immagini scopriamo una Istanbul sempre più cara, veloce, violenta. Bella solo per pochi. La «crescita» di Istanbul è ormai fuori controllo e distrugge la vita di migliaia di persone, ogni giorno.
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