I miei sogni impossibili
Immaginifico creatore di sogni, Maurizio Nichetti è un regista di riferimento per il cinema del «realismo fantastico». Tra il 2005 e il 2010 è stato direttore artistico del Festival internazionale del Film della montagna di Trento, e da quattro anni è direttore artistico del Festival internazionale del documentario «Visioni dal mondo», giunto quest’anno alla IX edizione. È titolare dell’attività di insegnamento al Laboratorio di regia del Corso di Laurea Magistrale in Televisione, cinema e new media della IULM, dopo aver svolto alcune esperienze di docenza presso altre università. Con il regista e produttore Giuseppe Carrieri ha scritto il volume in dieci lezioni Laboratorio di regia (Roma, Dino Audino Editore, 2017).
Msa. Si può imparare a fare cinema insegnando a fare cinema?
Nichetti. Nella vita si può imparare sempre, soprattutto dai bambini. Basta saperli osservare con la giusta curiosità. Ogni nuova generazione può insegnare molto alle generazioni che l’hanno preceduta, particolarmente oggi quando le rivoluzioni tecnologiche richiedono continui aggiornamenti.
Non si vedono più molti film come Ratataplan o Volere volare: liberi, surreali, fantasiosi, sperimentali, che mescolano fiction e animazione. Come mai?
Forse perché oggi vince la tecnica del remake al cinema e quella del format in televisione. Tutte e due utili agli investitori, siano privati o network televisivi, che in Italia vogliono o sanno produrre solo quello che ha già avuto fortuna. Nessuno vuole più rischiare soldi, o il suo posto di lavoro, su un prototipo cinematografico o televisivo non ancora sperimentato. Una volta era possibile fare i film in cui si credeva, oggi si deve lavorare sulle storie in cui hanno creduto, con successo, altri.
Cosa si aspetta per il futuro del cinema italiano, tra le piattaforme digitali e la sala cinematografica, e come vede il futuro del suo cinema?
Il futuro è sempre difficile da predire e, oggi, anche il volo di uccelli sempre più frastornati dai cambiamenti delle stagioni non ci può aiutare. Figuriamoci il futuro del cinema italiano che deve ancora risalire al neorealismo per trovare una sua identità. Le piattaforme, l’infinita offerta di prodotti seriali on demand ci ha reso tutti bulimici e pigri. Tanto «cinema» sì, a patto che sia seriale, riconoscibile e raggiungibile dalla poltrona di casa. Difficile affacciarsi in questa mostruosa offerta di contenuti con un prodotto originale. A un pubblico affamato di offerte riconoscibili, garantite e tranquillizzanti, meglio fornire saghe familiari recitate con attori che invecchiano, stagione dopo stagione, nei loro stessi personaggi. Non tutto, però, è negativo. Esiste sempre un mezzo bicchiere pieno. Per i film già realizzati, tra cui anche i miei, oggi esiste la possibilità di vivere nuove vite. Negli anni ’50 e ’60, anni d’oro per le sale cinematografiche, un film viveva una stagione in prima, seconda e terza visione, poi finiva in un magazzino in attesa di nuove invenzioni digitali (che per fortuna sono arrivate). Oggi un film lo puoi cercare in Rete, trovare in streaming, registrare a piacere e rivedere quando vuoi… a patto di aver saputo raggiungere e mantenere una memoria consapevole di cosa è stato fatto in passato. Se non si possiede questa memoria, l’alternativa è girare tra le varie piattaforme in attesa di produzioni attuali, tutte un po’ pianificate a tavolino. Figuriamoci cosa succederà, poi, con l’intelligenza artificiale, in grado di manipolare e riordinare anche i nostri ricordi.
Condivida con noi dei ricordi dei Paesi esteri dove ha raccolto consensi.
L’ultimo, in ordine di tempo, è legato a Pune, in India, poco prima dell’arrivo della pandemia. Una sala piena di ragazzi ha riso a Ratataplan come fosse un film di oggi. Un amico ha visto i miei film alla televisione cinese. Gli hanno fatto compagnia in un periodo della sua vita in cui era lontano dall’Italia. Ladri di saponette ha vinto, contro ogni pronostico, il Festival di Mosca in una Russia diversa da quella di oggi. Ricordo anche lo stupore di una platea vestita come zombie e scheletri che ha assistito alla vittoria di Luna e l’Altra a Bruxelles a un festival internazionale di cinema fantastico. Volere volare ha vinto il Festival dei Festival di Montréal, e presidente della giuria era Benny Hill!
Come si conquistano gli spettatori del cinema e della televisione, e perché oggi lo storytelling è così importante?
Lo storytelling è stato importante soprattutto per chi ha inventato il termine e ci ha campato per dieci anni spiegandone il significato in scuole e convegni. Direi che il moltiplicarsi di formati, minutaggio e possibilità di distribuire l’audiovisivo ha creato un sistema di «rimbalzi» inevitabile. Puoi accennare, approfondire, rimandare, promuovere, incuriosire utilizzando sapientemente ogni occasione, ogni canale di comunicazione, nel modo migliore. Raccontare storie raggiungendo pubblici diversi in diversi momenti della loro giornata. Non basta più un singolo spot, un singolo film. Lo spettatore va inseguito, accerchiato, sorpreso… comunque raggiunto. Per la felicità di chi vuole raccontare una storia: traduzione letterale di storytelling.
Per sviluppare la sua comicità, a chi si è ispirato o da chi ha tratto qualcosa?
Da tutti gli attori e gli autori che mi hanno preceduto. Quelli a cui mi sono volontariamente ispirato, ma anche quelli che avevo scordato, ma erano entrati irrimediabilmente nella mia memoria profonda. Gag che credevo di avere inventato le ho ritrovate in film del passato, mentre altre che credevo d’aver riproposto le ho riviste diverse. Come diceva Chaplin, a cui ricordavano alcune sue citazioni di Max Linder, «l’importante non è se si copia o meno, l’importante è copiare bene», dove per bene si intende farlo per ammirazione di un collega, per un omaggio e soprattutto non a sproposito o con tempi sbagliati.
Le sceneggiature dei suoi film sono complesse: non mancano mai le gag, lo spannung (il momento della massima tensione), l’amore, la vita professionale, le relazioni. A cosa sta lavorando in questo periodo?
Inseguo, come ho sempre fatto, i miei sogni. A volte sono sogni impossibili e proprio per questo sono quelli che ti piacciono di più. Un sogno che diventa troppo presto realtà, perde fascino, magia, diventa quotidianità e la quotidianità può anche annoiare.
Ha un ricordo particolare sul set con Lello Arena e con Angela Finocchiaro?
Sul set con Lello Arena mi sono trovato in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Mario Monicelli. Come posso dimenticarlo? Eravamo in Turchia, in Cappadocia, nelle grotte vicino a Urgup. Uno degli ultimi film italiani in costume, senza effetti speciali: i paesaggi veri, gli attori e gli animali in carne e ossa, e un grande regista da cui imparare. Angela Finocchiaro, invece, la ricordo in moltissimi film miei: da Ratataplan a Ho fatto Splash, Volere volare, Dottor Clown e la serie Mammamia! per la Rai, senza contare le pubblicità e il teatro. Troppi ricordi, tutti belli, tanto da essere sicuro che avremo ancora un futuro da ricordare insieme.
Da quattro anni lei è direttore artistico del Festival internazionale del documentario «Visioni dal mondo» fondato da Francesco Bizzarri. Perché questo impegno così lontano dal suo cinema, definito da alcuni critici come un cinema del «realismo fantastico»?
Proprio per aver realizzato commedie tra fantasia e realtà, sono molto attratto da chi la realtà la racconta, non con una fiction, ma documentando nella maniera più onesta e non di parte una società, una crisi ambientale, un’attività illecita. Il giornalismo investigativo o certi lavori sulle nostre continue crisi ambientali aiutano a riflettere, a capire, a immaginare il nostro futuro sempre più minacciato da instabilità economiche o politiche.
Tre caratteristiche vincenti di un buon documentario.
Lungo il giusto, né un minuto di più né un minuto di meno da quello che serve a una chiara esposizione dell’argomento. Il pubblico va catturato con ritmo e sostanza, non trascinato stancamente verso un minutaggio utile solo a occupare uno slot televisivo. La passione e la buona fede dell’autore sono indispensabili. Senza una o l’altra di queste caratteristiche, nessun argomento si trasmette in modo corretto a uno spettatore. Infine riuscire a rendere accessibile e gradevole alla visione anche la tematica più scorbutica. Personalmente non amo le scelte provocatorie, fini a sé stesse, suggerite da una ricerca di pubblico piuttosto che da una reale necessità. Quando poi trovo anche un po’ di ironia, sono convinto che il pubblico sarà ancora più invogliato alla visione e sarà un film che difficilmente dimenticherà.
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