Cronache dal fronte

A tu per tu con Giammarco Sicuro, inviato di punta della Rai. In prima linea sin dal 2008, quando ha cominciato a seguire molti tra i fatti più importanti di cronaca italiana e internazionale e i fronti di guerra.
22 Settembre 2023 | di

Trovare «il buono e il vero» dentro una guerra non è affatto una cosa scontata in tempi mediaticamente opacizzati come questi. La verità stessa è a rischio, essendo diventata un bersaglio militare su cui si scatena la propaganda. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con un volto noto dell’informazione, che quasi ogni giorno entra nelle case degli italiani: Giammarco Sicuro, giornalista di frontiera del Tg2, sin dal 2008 inviato speciale nei fronti più «caldi» del pianeta

Msa. Parto da una domanda scontata: com’è la vita di un reporter di guerra?

Sicuro. Beh, dipende dall’area in cui mi trovo. Prendiamo il caso dell’Ucraina: il Paese è molto esteso e gli scenari di guerra sono diversi. Parliamo di un conflitto molto simile alla Seconda guerra mondiale, quella di posizione. Qui, se ti trovi all’Ovest, anche a una trentina di chilometri dal fronte, vivi in un contesto quasi normale, benché sempre sotto la minaccia dei missili: puoi trovare supermercati, negozi e ristoranti aperti. Diverso, invece, è quando ti avvicini alla prima linea, dove manca davvero tutto. Questo perché parliamo di una guerra fondamentalmente per le risorse.

Com’è informare da uno scenario di guerra? 

È una quotidiana responsabilità che non ti molla mai: in ogni momento della giornata, durante ogni incontro, così come in ogni articolo o servizio televisivo che ti trovi a realizzare. Essere un giornalista significa infatti sostanzialmente «fare, dare e donare» informazione a chi non può vedere ciò che racconti. Se non è responsabilità questa!

Avrebbe mai immaginato di dover raccontare un conflitto alle porte dell’Europa? 

Non la sorprenda se le dico che quella in Ucraina è diventata a tratti una guerra «facile» da raccontare: siamo quasi di fronte a uno spaccato di passato, con sembianze e strategie novecentesce, tanto che l’essere in trincea oggi non è molto diverso da come lo era, settant’anni fa, durante la Seconda guerra mondiale. Questo, paradossalmente, facilita il mestiere degli inviati di tutto il modo, che possono recuperare quella figura di reporter di guerra che avevamo conosciuto negli anni passati, a partire dal 1943. Se oggi il numero degli inviati è cresciuto, è perché le rispettive propagande dei due Paesi - Russia e Ucraina - sono in moto perpetuo e richiedono un presidio costante sul territorio per garantire la veridicità delle informazioni, le quali sono spesso manipolate dalla propaganda stessa. 

E dal punto di vista della sicurezza per i giornalisti, che tipo di guerra è quella in Ucraina? 

Non è molto sicura, in realtà. I morti in Ucraina tra i giornalisti ci sono, eccome (32 a oggi), senza contare i feriti. Molti li ho conosciuti di persona. Altri erano amici. Faccio mie le parole di Lorenzo Cremonesi che, analizzando le differenze tra la guerra di Siria e quella in Ucraina, sottolineava che quest’ultima si mostra più «comoda» in termini di organizzazione e logistica per i giornalisti, ma non certo priva di rischi. Le stesse cifre ufficiali, mai avallate dai rispettivi eserciti, dicono che in un anno i russi hanno perso più soldati che nella Seconda guerra mondiale: 280 mila militari, quasi tutti giovani. 

Qual è la sua definizione di inviato di guerra? 

Ripeto spesso a me stesso che la migliore definizione sarebbe «inviato di pace». Almeno per me, vista la mia naturale propensione a trovare la faccia buona delle storie più drammatiche, la normalità nell’eccezionalità, cercando di non rincorrere necessariamente lo scoop a ogni costo.

Che cosa pensa della qualità dell’informazione globale e, soprattutto, nazionale, considerando che l’Italia è al 41° posto – anche se siamo risaliti di qualche posizione – nella classifica mondiale della libertà di stampa? 

Complessivamente buona in termini globali, anche se non nego le responsabilità che abbiamo quando la stampa è veicolata da interessi economici e politici, pressoché presenti in ogni parte del mondo. In Italia, invece, assistiamo a un unicum europeo dell’informazione, per l’influenza della propaganda russa sulla diffusione di certe notizie che alle volte mi spiazzano in quanto operatore dell’informazione. E questa cosa non la vedo in altri Paesi europei…

Ma, secondo lei, la libertà di stampa è a rischio? 

Sì, se per esempio ci si affida alla narrazione che, nello specifico della guerra in Ucraina, arriva dalla Russia. In Italia, poi, sussiste un problema storico del giornalismo, che s’innesta in questa sua domanda. Il nostro fare informazione è sempre più basato sulle opinioni, sulla polarizzazione, su un dualismo che porta a parteggiare per l’una o per l’altra parte, con la dichiarata volontà di cercare sempre un contraddittorio. Ma in tal modo il rischio è quello di dare involontariamente spazio alla propaganda stessa, e quindi alla disinformazione che, non dimentichiamolo, è essa stessa «un’arma di massa», che viola i principi e i doveri della cronaca, la quale deve essere invece svincolata dalle opinioni.

Il suo è una sorta di giornalismo «sociale», vicino ai fatti e alla gente comune. Da dove le arriva questa sensibilità? 

Dalla mia storia personale, che mette radici nei valori fondativi della provincia da cui io stesso provengo, che difendo e che tuttora esiste. La mia terra è il Valdarno, tra Firenze e Arezzo, dove ho respirato e continuo a respirare la capacità di fare solidarietà partendo dal basso. Un valore cui non voglio rinunciare. 

Strumento del mestiere indispensabile è l’empatia: qual è l’approccio umano che lei adotta nell’avvicinare e intervistare una persona? 

Rispetto e delicatezza, sempre e comunque. Il primo, perché ti serve per entrare in sintonia con l’interlocutore. La seconda perché è essenziale che ti ricordi sempre che entri in casa altrui. Aggiungerei poi la leggerezza, che non è superficialità. Ricordo quanto avvenne in Afganistan qualche anno fa, quando ero stato invitato a entrare in una povera casa distrutta da un drone americano. La famiglia era stata decimata: erano rimaste solo le donne e una bambina, tutti gli uomini – compresi tre figli – erano stati uccisi. Così, prima di assolvere alla mia funzione di giornalista, ho fatto passare del tempo giocando con la bambina e scherzando sulla gestione degli animali domestici. 

Quanto pesa oggi l’immagine nel sistema informativo?

È fondamentale. L’immagine è l’equivalente della musica sul piano evocativo ed emozionale. Mi preoccupa molto la diffusione d’immagini ricreate dall’intelligenza artificiale, che poi diventano storie mai successe che possono emozionare o spiazzare. È un enorme rischio per il giornalismo. Dobbiamo trovare delle regole, per evitare di essere travolti. L’esempio di quanto tutto questo conta nella vita reale la si è avuta con l’immagine di un missile caduto sul Pentagono, che era una fake elaborata con l’intelligenza artificiale, ma che ha avuto la conseguenza di far crollare la Borsa americana.

Crede che il giornalismo di strada sia a rischio estinzione? 

No, se viene fatto utilizzando correttamente la tecnologia di cui oggi siamo dotati. Ma anche sì, soprattutto in Italia, dove i compensi sono in genere bassissimi: serve una maggiore tutela verso la professione giornalistica, perché i «tagli» rendono ricattabili i giornalisti. Altro segnale poco confortante è la mancanza di scuole di giornalismo. Da noi ci sono degli indirizzi universitari, ma non scuole specifiche, e sono costosi. Io sono laureato in Scienze politiche con indirizzo giornalistico, ma le confesso che ho imparato poco sul giornalismo stando sui banchi universitari. 

Secondo lei esiste ancora, in concreto, un’etica professionale? 

Per qualsiasi operatore dell’informazione vige una regola aurea: porsi sempre dubbi, su tutto e su tutti, ma non avere mai invece preconcetti o pregiudizi. Giungere in un posto e venire travolti dal contrario di ciò che si pensava alla partenza, è sempre un bel segnale. Cambiare idea, lo reputo un segno di umiltà, intelligenza e capacità di mettersi in gioco. 

Che rapporto ha con la paura? 

Ho un rapporto prezioso. Non avere paura ti spinge oltre e ti fa compiere errori che in una situazione di guerra possono essere letali. Ecco perché dico che la paura la metto sempre in valigia, ed è la mia compagna di viaggio e di lavoro.

Vorrebbe ritornare in Russia? 

Certo! Ma per ora nessuno me lo chiede, anche perché avrei dei problemi con la polizia, visto le denunce sui crimini di guerra che ho fatto in video e scritto nel mio ultimo libro (Grano, Gemma edizioni). Al momento è preferibile non «provocare l’orso», anche se il mio istinto di cronista spesso mi assale in un infinito alternarsi di emozioni. Che poi altro non sono che lo specchio di quella realtà in cui ci troviamo e che raccontiamo.

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Data di aggiornamento: 22 Settembre 2023

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