Il retrobottega della storia
Almeno nelle botteghe e nei negozi di una volta andava così. Affacciata sulla strada era la vetrina, che metteva in mostra il meglio di sé: ben ordinato, accattivante, alludendo a tanto altro che non fosse semplicemente ciò che era (solo un paio di scarpe, una sciarpa, ecc.), con qualche trovata scenica di marketing, anche se allora non si sapeva che si chiamava così e tanto meno che fosse una vera e propria arte per farti comprare ciò che non era nei tuoi progetti quando sei uscito di casa.
Se ti bastava il portafoglio, o anche solo per concederti un innocente bluff, entravi nel negozio. Tanta altra mercanzia, non altrettanto ben messa in mostra, anzi affastellata in ripiani, cassetti, in scatole impilate l’una sull’altra. Poi il bancone, le commesse, il negoziante, la cassa: insomma, il confine tra desideri e realtà.
Si poteva misurare la vita di ognuno di noi dai negozi che frequentavamo o, di più, da quelli che potevamo solo ammirare con invidia ma, ahimè, girargli alla larga (ripiegando nei più abbordabili mercati di paese). Un mondo scintillante, promettente, dove tutto era giusto e bello. Bastava acquistarlo.
Questi negozi contemplavano però un ulteriore ambiente: dove era vietato entrare alla clientela, generalmente buio, stretto, sporco, puzzolente, ingombro di cianfrusaglie inutili o rotte destinate ai bidoni dell’immondizia. Che erano lì, appena fuori dalla porta sul retro. Appunto, il retrobottega.
Allora, e ora seppur in maniera diversa, era anche il luogo dello sfruttamento. Del lavoro in nero, diremmo noi abituati alle retate delle forze dell’ordine in laboratori tessili o altro dove moderni schiavi si ammazzano di lavoro per soddisfare le nostre voglie.
Ma retrobotteghe di questo tipo e con queste funzioni sono per certi versi anche le foreste distrutte, le popolazioni in giro per il mondo derubate dei propri beni, le miniere che inghiottono la vita di tanti disperati, lo sfruttamento di donne e bambini perché a buon mercato e anonimi, la vendita di armi per arricchirci con la morte degli altri. Che ne sappiamo noi di tutto questo, mentre facciamo lo struscio davanti ai negozi sul corso o nel centro commerciale?
Noi forse poco o niente. Ma Dio tanto! Dal momento che suo figlio Gesù è nato proprio nel retrobottega della storia. Non lì dove il potere e il successo ostentavano spudoratamente se stessi, ma tra gli ultimi, i poveri, in un luogo qualsiasi, un giorno qualsiasi, senza che nessuno se ne accorgesse a parte le persone sbagliate e meno credibili.
Del resto, un messia perfetto, uno splendido manichino addobbato per le vetrine natalizie, avrebbe costretto gli uomini a confrontarsi continuamente con il proprio fallimento, come un obiettivo irraggiungibile e solo sospirabile nei momenti più devoti. Ma Gesù entra nel mondo, il nostro, dalla porta di servizio, dal retrobottega. Lì dove noi ci aggiriamo con le mani in tasca perché mani vuote. Rimbombi secchi di una scure che si abbatte impietosamente sulla vita, ci facciamo volentieri cullare da questo Dio Bambino, non sazi della morte che, come dicono, ci ha presi sulle ginocchia appena nati. Un Dio che ha deciso per «la meravigliosa imperfezione del reale» (Emmanuel Carrère). Che è la polvere stellare di cui sono impastate le nostre esistenze: le nostre lotte e fatiche, le nostre mani callose e i piedi piagati, le nostre lacrime e i sorrisi, le nostre illusioni e le nostre delusioni.
Un momento… Adesso che ci penso, mi viene in mente che Gesù si è fatto uomo passando dalla porta di servizio, sì. Ma dalla stessa porta, amando tutti fino al dono completo di sé, se n’è anche andato… Buon Natale a tutti voi!