La beatitudine dell’attesa
Dicembre è il mese dell’attesa e della festa. Non si può festeggiare davvero se non si è capaci di attendere. Una parola della quale abbiamo sbiadito il significato, riducendolo a un puro negativo: inutilità, noia, non-vita.
Siamo sempre impazienti. Rifiutiamo cioè di riconoscere il valore di quel vuoto, di quel silenzio, di quella sospensione di un tempo che non è mai, comunque, nelle nostre mani. Lo pensiamo come qualcosa che andrebbe tagliato, nel montaggio ideale del film della nostra vita, come si tagliano i tempi morti nel cinema. Cerchiamo di saturarlo con microattività per le quali i nostri smartphone sono sempre a disposizione.
Eppure, è proprio nel lasciarci condurre per mano da quel tempo sgombrato dalla frenesia, e da quel silenzio accogliente, che potremo gustare in tutta la sua intensità il sapore della festa. Perché ciò che non è preceduto da un’attesa di desiderio, così come i frutti colti prima del tempo, delude sempre. Lo ha scritto con parole bellissime Dietrich Bonhoeffer, dalle mura della sua prigione: «Chi non conosce la beatitudine acerba dell’attendere, cioè il mancare di qualcosa nella speranza, non potrà mai gustare la benedizione intera dell’adempimento».
L’attesa delle risposte che non arrivano, il frutto dei nostri sforzi che ci sembra di non poter mai cogliere, sono esperienze di tutti. La pazienza dell’attesa, senza soccombere alla rinuncia né perdersi nella distrazione, è ciò che ci aiuta a «tenere aperti gli occhi del desiderio».
L’avvento non è solo il tempo che ci prepara al Natale. È una scuola di attesa e desiderio, da frequentare con gioiosa consapevolezza, perché serve per la vita: «Nel mondo dobbiamo attendere le cose più grandi, più profonde, più delicate, e questo non avviene in modo tempestoso, ma secondo la legge divina della germinazione, della crescita e dello sviluppo» (Bonhoeffer).