Misericordia, da nome a verbo
Papa Francesco ha scelto come suo motto «miserando atque eligendo», una frase con cui san Beda il Venerabile, monaco benedettino inglese (673-735), commenta la scena della chiamata di Levi in Luca 5,27: «Gesù lo guardò con sentimento di amore e lo scelse». Bergoglio commenta: il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile in italiano e spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio, che però non esiste: misericordiando. Questo vuol dire che la misericordia richiede il verbo, più ancora che il nome.
Il nome, il sostantivo indica la cosa, la figura. Il verbo, invece, trasmette l’azione, il dinamismo, l’esperienza. La misericordia deve perdere la sua fissità di teoria teologica per diventare gesto, atto, azione, processo, opera. Amare si traduce sempre nel vangelo con un altro verbo, semplice, asciutto, nitido: dare. Amare è un verbo transitivo. Deve transitare da me all’altro.
Diane Kaplan (nella foto) è una israeliana della seconda generazione dopo l’olocausto. Da alcuni anni compone e canta bellissime melodie su versetti dei salmi, alle quali ha dato il nome di Canti dalla Sorgente e che diffonde in concerti in vari paesi. Tutto ha avuto inizio quando, tempo fa, Diane ha raggiunto negli Stati Uniti la madre ormai in coma, portando con sé solo la chitarra e un libro con i salmi e le preghiere per i morenti, e ha accompagnato gli ultimi giorni della madre porgendole il suo canto di frammenti dei salmi. «Sentivo, racconta, che mia madre si rilassava, si abbandonava, il volto si distendeva. Quando smettevo, si irrigidiva e qualcosa nella sua figura mostrava disagio. Poi riprendevo il canto e lei si consegnava alla voce. Due giorni interi ho cantato per lei, fino alla sua morte pacificata». Quando non ci sono più parole che si possano dire, e forse non si devono neppure dire, allora il canto, la preghiera della musica e la musica della preghiera, giungono ad una profondità impensata, aiutando a far pace con sorella morte. Da questa esperienza è nata la decisione di Diane di offrire la sua preghiera in canto per accompagnare l’ultimo passaggio, cantando in ospedali e case private per coloro che lo domandavano, o che potevano accoglierlo sentendolo adeguato alla loro fede.
Una delle sette opere di misericordia chiama a «seppellire i morti», ma la sua attuazione pratica non potrebbe tradursi oggi in forme di accompagnamento dei morenti, mentre attraversano l’ultima frontiera? Madre Teresa di Calcutta diceva: «noi accogliamo i fratelli morenti, ben sapendo di non essere in grado di evitare loro la morte. Ma ciò che noi dobbiamo fare è che nessuno muoia senza essere stato amato».
Su questa linea, gli hospice per malati terminali, con lo splendido volontariato che li sostiene, sono una delle intuizioni più evangeliche del nostro tempo. Dove invece la morte è solo medicalizzata, dove si cura la malattia ma non la persona, si muore nell’abbandono, nascosti dietro un paravento, senza dignità, quasi che l’ultimo respiro fosse una cosa oscena, da non vedere e non toccare. Ho assistito in una Rsa a una scena commovente: due infermiere, dopo aver accudito professionalmente un’anziana malata, si sono guardate con un cenno d’intesa, e insieme si sono sfilate i guanti di lattice, e con le mani calde, vere, hanno accarezzato amorevolmente, pelle su pelle, le braccia e il volto della donna che stava scivolando dalle loro braccia verso le braccia di sorella morte.
La misericordia è un fatto di compassione e di mani. Il tatto è, tra i cinque sensi, il primo che si desta nell’uomo e l’ultimo che si spegne, quello che apre e chiude la vita, come apre il Cantico dei Cantici e lo riempie; è un modo di amare, il modo più intimo; è il bacio e la carezza. Morire accarezzato da mani buone, avvolto da una preghiera in canto... Non è anche questa grande misericordia?