Africa, un continente di plastica
«L’idea di partire con Sebastiano Busolin per un lungo viaggio in moto, attraverso l’Africa, è sempre stata molto forte in entrambi», ammette Edoardo Alberti. «Poi siamo riusciti a collegare il viaggio anche a un progetto umanitario, il che non poteva che renderci felici e orgogliosi». Il progetto si chiama «Africa Plastic Road», nasce con la onlus vicentina «Missionland» di Carrè e ha l’obiettivo di ridurre il volume dei rifiuti di plastica nel continente africano. «È ancora in fase embrionale – ammette Edoardo –, ma il primo viaggio che abbiamo intrapreso è servito proprio per verificare la situazione generale, e le realtà dove il progetto può essere sviluppato». Un tema di stringente attualità, riportato alla ribalta dalla Giornata mondiale dell’ambiente che si celebra ogni anno il 5 giugno.
In quattro mesi, Edoardo e Sebastiano hanno attraversato insieme, con le loro moto, 14 Stati africani: Marocco, Mauritania, Senegal, Guinea Conakry, Costa d’Avorio, Ghana, Togo, Benin, Nigeria, Camerun, Congo Brazzaville, Angola, Namibia e Sudafrica. «Abbiamo ripercorso le tappe della prima edizione della Parigi-Dakar, il famosissimo rally, con alcune deviazioni come ad esempio Chinguetti, in Mauritania, città santa per l’Islam, o il Lago Retba (o Rosa) a nord-est di Dakar, senza farci mancare quasi tutte le caotiche capitali africane, dal momento che dovevamo sbrigare le pratiche burocratiche per il nostro passaggio, Stato per Stato».
I due bikers green
Edoardo Alberti è nato ad Asiago (Vicenza) il 10 ottobre 1998, e vive a Gallio. La passione per la moto gliel’ha trasmessa suo padre Moreno che lo ha sempre sostenuto anche nei momenti più difficili della sua vita, e perfino quando ha affrontato in moto il deserto in Arabia Saudita, nel Rub Al Khali in Oman, esperienza da cui poi è nato il libro A due mani nel deserto. «Di ritorno da quel viaggio, e dopo vari lavori completamente diversi l’uno dall’altro, mi sono riavvicinato a ciò che ho studiato – prosegue Edoardo –, cioè il mondo del video-making e della grafica. Ho cominciato a realizzare alcuni documentari su usanze e popolazioni sconosciute, in giro per il mondo, pur continuando il mio lavoro in una televisione locale».
Sebastiano Busolin, invece, è nato a Mirano (Venezia) il 16 ottobre 1996. Fin da piccolo ha sempre avuto la passione per le macchine e i motori grazie a un amico che ogni tanto andava a casa sua a sistemare auto e motorini. «Da lì ho deciso di frequentare una scuola specialistica, e mi sono diplomato come meccanico – racconta –. Mi affascinava il fatto che con le mie mani potevo riparare una macchina ridandole vita. Fin dai tempi della scuola ho la passione per le moto. Le due ruote mi danno un grande senso di libertà. Con il passare degli anni ho capito che con una moto posso andare dove voglio: attraversare strade sterrate, torrenti, sentieri, ecc., cose che con una macchina non si possono fare. Viaggiando in moto si può percepire il tempo del viaggio pur rimanendo sempre a stretto contatto con la natura e con tutto quello che ti circonda».
Edoardo e Sebastiano si sono conosciuti 7 anni fa a un semaforo, e da li è nata una grande amicizia che si è consolidata proprio in occasione di questa esperienza in Africa. E oggi si considerano come fratelli, ridistribuendosi anche i compiti: Sebastiano si occupa della manutenzione delle moto ed Edoardo delle scartoffie burocratiche e dei rapporti con i vari sostenitori dell’iniziativa, tra i quali i Milani di Rosà (Vicenza) impegnati sul fronte della sostenibilità ambientale.
Condizioni estreme
Il viaggio in Africa li ha messi a dura prova. «Le condizioni variano molto da Paese a Paese – ammettono –. Ciò che abbiamo riscontrato ovunque, in tutti e 14 gli Stati che abbiamo attraversato, è l’elevata presenza di plastica, che non viene smaltita correttamente, proprio perché non esistono i mezzi necessari per farlo, e non è la priorità degli abitanti, che non si possono certo biasimare. La ricchezza è sempre mal distribuita: ci sono i ricchi che vivono al di sopra della legge, e ci sono i poveri, molti, la cui unica preoccupazione è arrivare alla fine della giornata con qualcosa da mettere nello stomaco».
L’emergenza plastica è presente ovunque. «Siamo passati nelle discariche abusive dove si può entrare liberamente. Si trovano anche a fianco delle strade, fuori delle città un po’ più grandi, e solitamente sono vicine ai corsi d'acqua. Ma esistono anche le emergenze sanitarie, la malnutrizione. Nei piccoli villaggi che abbiamo attraversato in moto, abbiamo potuto constatare la situazione reale, non solo nell’Africa centrale, ma anche nelle zone più a sud, come in Namibia o in Sudafrica, di solito considerate più sviluppate, ma dove ci sono ancora divari tra africani che vivono in ghetti e baracche di lamiera, e uomini “bianchi”».
In queste regioni alla periferia del mondo l'inquinamento prodotto dalla plastica sta cambiando le abitudini delle persone. «Siamo riusciti a entrare anche in due delle discariche a cielo aperto più grandi del pianeta: quella di Mbeubeuss a Dakar (Senegal), e quella di Agbogbloshie ad Accra (Ghana). Una parte dei rifiuti che produciamo in Europa, anche in Italia, arrivano in queste discariche dove vengono smaltiti in modo tutt’altro che ecologico. Per esempio, i cavi elettrici o i copertoni vengono bruciati completamente finché non resta solamente il rame o l’acciaio che poi vengono rivenduti a peso per pochi centesimi. All’interno di queste discariche possono vivere anche fino a 10mila persone. Qui pure i bambini vivono alla giornata raccogliendo rifiuti con un minimo di valore, che rivendono poi ai boss locali che controllano le discariche. Per due europei “bianchi” come noi, è stato piuttosto difficile e pericoloso entrare in questi territori, ma con l’aiuto di alcuni locali e anche di alcuni italiani conosciuti lungo la strada, siamo riusciti a vedere veramente come si vive all’interno di una discarica. Il problema è che anche chi ci vive dentro trova utile la discarica. Alla fine è un modo per guadagnare velocemente, ed è un sistema ben consolidato, difficile da spodestare. Entrambe le discariche che abbiamo visitato si trovano lungo un corso d’acqua che poi sfocia in mare, perciò hanno sicuramente una ricaduta sull’ambiente in generale».
L’inquinamento si lega anche in Africa agli effetti dei cambiamenti climatici. Ma la percezione da parte della gente comune non è così forte. «La preoccupazione principale delle persone è quella di arrivare a fine giornata assicurando un pasto a tutta la famiglia. E il divario sociale che c’è tra chi è ricco e chi è povero non fa altro che alimentare questo circolo vizioso».
Un’esperienza di frontiera come questa non può non esporre a rischi concreti, ma «non ci siamo mai sentiti realmente in pericolo. Ci siamo mossi sempre senza pregiudizi, cercando di capire le situazioni che stavamo vivendo. Qualche volta ci siamo imbattuti in persone magari più alterate o in poliziotti più insistenti in cerca di pretesti, ma abbiamo sempre risolto i problemi spendendo qualche parola con loro, spiegando la nostra situazione, e con il sorriso in faccia. E ci è sempre andata bene!».
Sfide senza pregiudizi
Un viaggio attraverso l’Africa non poteva non contemplare le avversità naturali, come in Marocco «dove ci siamo imbattuti nella più grande alluvione degli ultimi 15 anni, che ha spazzato via case, auto e ponti provocando decine di morti. Abbiamo percorso 6 km in circa 6 ore attraversando guadi e cercando strade che poi sono state spazzate via. Ma abbiamo affrontato anche le temperature proibitive della Mauritania con picchi di 46 gradi».
Anche le moto di Edoardo e Sebastiano sono state messe a dura prova. «Problemi meccanici ne abbiamo avuti molti, ma fortunatamente nessuno di così grave da impedirci di proseguire il viaggio. La burocrazia, invece, ci ha costretto a trascorrere giorni interi alle frontiere, anche 7 ore seduti ad aspettare, per non pagare nessuna mazzetta ai poliziotti o ai doganieri locali perché non avevamo molti soldi con noi. Abbiamo dormito sempre in tenda, chiedendo ospitalità oppure sostando ai lati delle strade quando il sole cominciava a tramontare. In Nigeria ci sono moltissimi posti di blocco, e a volte è difficile distinguere quelli effettivamente governativi da quelli istituiti invece dalla gente del luogo. Ma anche in quei casi non abbiamo mai pagato nessuna tangente. Semplicemente con un sorriso spiegavamo che non avevamo molti soldi con noi, e che non avremmo pagato nessuno. Ci fermavano per chiacchierare un po’, e il più delle volte ci offrivano addirittura cibo e acqua».
Secondo Edoardo e Sebastiano in Africa ci sono persone fantastiche. Di tutti i momenti belli vissuti, uno spicca fra gli altri: «C’è un piccolo villaggio in Camerun, appena dopo il confine con la Nigeria. Si chiama Tibati. Siamo stati costretti a uno stop forzato proprio per aggiustare le moto dopo aver affrontato la tremenda strada che fa da confine tra Nigeria e Camerun. Il confine è chiuso per noi europei. Esiste solo quello in alta montagna: sono 60km di strade terribili che ci hanno impegnato per quasi 12 ore. A Tibati abbiamo trovato un’ospitalità incredibile. Per la prima volta, dopo tre mesi di viaggio, mi sono sentito come a casa. Parecchi abitanti del villaggio sono venuti ad accoglierci. Chi ci aiutava a riparare la moto, chi a trovare i pezzi di ricambio di cui avevamo bisogno. Siamo andati a conoscere uno dei sacerdoti del posto e abbiamo partecipato alla messa con tutti gli abitanti. Tibati è un luogo che portiamo ancora nel cuore».
Sono innumerevoli gli aneddoti inanellati lungo il viaggio dai due esploratori, «dalle notti trascorse con i pompieri o in posti di sanità abbandonati, a chi ci ha offerto soldi per contribuire al nostro viaggio, o al fatto di venire svegliati nel cuore della notte da un’invasione di formiche che ci ha costretto a smontare l’accampamento e a spostarci. Ma l’episodio che raccontiamo più spesso è relativo a Cabinda, un piccolo exclave dell’Angola dove siamo rimasti bloccati per 10 giorni per problemi burocratici perché avevamo finito il budget per i visti. Una volta entrati in territorio angolano, il piano era di raggiungere l’Angola a bordo di una piccola imbarcazione, risparmiando tempo, energie e denaro. Sfortuna ha voluto che quell’imbarcazione fosse occupata per più di un mese mentre il nostro visto durava solo 30 giorni. Le abbiamo provate tutte, e per poco non siamo riusciti a salire su un aereo militare russo che ci avrebbe portato in Angola. Alla fine, fra mille peripezie siamo riusciti a salire su una nave merci grazie a un personaggio conosciuto per strada che ci ha portato in territorio angolano, e da lì il nostro viaggio è proseguito verso sud».
E la salute? «L’unica precauzione che abbiamo adottato è quella dei vaccini obbligatori per entrare nei vari Stati, e la profilassi per la malaria negli Stati a rischio, cioè quasi tutti.
In totale, Edoardo Alberti a Sebastino Busolin hanno percorso più di 30 mila chilometri. «Siamo stati sostenuti da numerosi sponsor che hanno voluto unirsi a noi in questa avventura. Alcune aziende di Spagna, Inghilterra e Stati Uniti ci hanno fornito attrezzature e vestiario per il viaggio in moto, mentre altre aziende venete ci hanno sostenuto economicamente. Senza dimenticare tutti gli amici, i familiari e i supporter che abbiamo conosciuto durante il viaggio. Per affrontare un’avventura come questa servono molte meno doti rispetto a quelle che ci si può immaginare. Se si ha un grande spirito di adattamento e si affronta tutto con calma, i risultati vengono da sé. Poi occorre sperimentare ogni situazione con la mente aperta e senza pregiudizi, ma comunque con gli occhi ben spalancati per evitare situazioni spiacevoli».