Vivere nel cimitero della tecnologia
Terra bruciata sotto un cielo fumoso e tappeti erbosi ricoperti da cavi e carcasse metalliche. Sui campi, i piedini di centinaia di bambini e bambine si fanno spazio in mezzo all’immondizia della nuova era, quella dell’hi-tech. In Ghana, nella piana di Agbogbloshie, a pochi chilometri dalla capitale Accra, si estende la più vasta discarica di rifiuti elettronici del mondo, l’ultima fermata per chi è alla ricerca di un lavoro e di un tetto, anche se fatto di sola lamiera. Nel territorio ghanese approdano, infatti, ogni anno migliaia di tonnellate di e-waste di cui i Paesi più sviluppati risultano i massimi produttori: computer, stampanti, televisori, fornetti, frigoriferi, cellulari e quanto non serve più al «mondo moderno», tutti oggetti abbandonati soltanto perché fuori moda. L’aria si fa irrespirabile a causa dell’odore pungente derivato dalla combustione del materiale elettrico, bruciato per ricavarne minerali da rivendere illegalmente. Così, a pochi passi dal mercato rionale, tutto appare come un vasto buco nero.
La miniera d’oro dei poveri
Le RAEE (le immondizie elettroniche) arrivano in Ghana da Europa e America, continenti a cui non conviene economicamente smaltire gli oggetti seguendo le regolari procedure. Ogni settimana, quindi, decine di container vengono scaricati nel porto di Tema, riportando in calce delle false etichette che indicano dei beni «di seconda mano». Qualche elettrodomestico viene in effetti riparato, giungendo poi nelle case dei ghanesi più fortunati, che non possono comunque permettersi di comprare un prodotto nuovo di zecca. Il resto finisce sulla piana, innescando un circolo vizioso di tossicità, capace di generare un business smisurato.
In realtà Agbogbloshie è una paradossale miniera d’oro, un’immensa riserva per i capi locali, dove diventa facile rottamare e spacciare droga. Il guadagno più grosso deriva dal lavoro manuale delle donne che riciclano plastica, la dividono per colore per rivenderla, lavorando un’intera giornata per la misera paga di 2 euro. Accanto alle madri, i bambini manipolano oggetti pericolosi nella speranza di riuscire a ricavare qualcosa per garantirsi un pasto. I padri sono invece addetti alla combustione dei copertoni, incendiati per «ammorbidire» le carcasse degli apparecchi da aprire e sezionare. Ogni tanto fanno il loro ingresso i ricchi acquirenti, con i loro abiti profumati e griffati, pronti a ordinare nuovamente l’avvio dei carichi sui camion. I porti cinesi saranno infatti la destinazione finale di tutto il materiale plastico smaltito insieme ai componenti interni dall’anima di ferro, alluminio, rame e oro. Mentre alla gente di Agbogbloshie spettano solo pochi spiccioli e sudore tossico.
Un «non lavoro» indispensabile
I giovani che lavorano tra i rifiuti non hanno più sogni. Così Nana Kwame, un ragazzo di 30 anni, si guadagna da vivere raccogliendo bottiglie di plastica finite in una diga adiacente alla piana. «Ogni chilogrammo mi viene pagato 0,50 Cedi ghanesi, l’equivalente di 0,088 dollari americani», spiega Nana. «Metto la plastica dentro grandi reti, ma per farlo passo tante ore immerso nell’acqua, dove vedo galleggiare altri rifiuti. Tutto attorno, soltanto fumo e fiamme. Qualche anno fa mi sono ferito e ho avuto il tetano».
Quello di Agbogbloshie è un ambiente martoriato: le polveri metalliche, derivanti dal costante martellamento degli oggetti, si infiltrano nel terreno, finendo anche nelle acque di fiumi e mare. E se per i Paesi sviluppati questa pianura rappresenta una gallina dalle uova d’oro, per i suoi abitanti è soltanto una tomba. Lavorare senza alcun mezzo di sicurezza diventa un rischio per la salute: si mettono a repentaglio l’udito, il sistema respiratorio e quello immunitario, i reni e lo stesso Dna. «Un bambino di Agbogbloshie che mangia solamente un uovo di gallina al giorno, assorbe 220 volte il limite giornaliero di diossine clorurate», ha affermato nella sua relazione Marie-Noel Brune Drisse, ricercatrice dell’Organizzazione mondiale della Sanità e principale autrice del rapporto sulla situazione di Agbogbloshie. «E il volume dei rifiuti elettronici sta rapidamente crescendo, a causa di un sempre maggior utilizzo della tecnologia da parte della popolazione mondiale».
La natura qui sembra comprendere che è meglio non far crescere nulla, perché tutto risulterebbe insalubre e mortale, eppure in lontananza mandrie di mucche pascolano dove c’è ancora un po’ di erba. La gente non si accorge della contaminazione di latte e carne, che rimangono così nella dieta giornaliera con conseguenti tumori in età infantile con una mortalità sorprendentemente elevata. Fa il suo ruolo anche il vento, veicolo per la fuliggine, carica di piombo e diossine, che si deposita su frutta e verdura, poi messe in vendita al mercato. Ma questo «non lavoro» deve proseguire e agli uomini tocca rompere a pietrate una serie di tubi catodici per recuperare viti e pezzi di metallo, condividendo un unico cacciavite, tutto rigorosamente a mani nude e con le infradito ai piedi.
Un’infanzia rubata
Secondo l’organizzazione Ghana Statistical Service, quasi il 28% dei bambini ghanesi di età compresa tra 5 e 17 anni è coinvolto nel lavoro minorile. Di questi, circa il 21% lavora in condizioni pericolose. A rimanere chine per dodici ore al giorno sono soprattutto le bambine che si occupano di bruciare la plastica che compone gli schermi dei computer. Le adolescenti si muovono invece nelle zone piene di fili elettrici, respirando il pulviscolo metallico ed esponendo la propria pelle ai frammenti di ferro. Ad aiutarle in queste faccende sono le mamme con in braccio il fratellino appena nato e le nonne che distribuiscono acqua e bucce d’arancia come spuntino. Non sanno che tutto questo comporterà un danno al loro apparato riproduttivo. Anche Rashida ha iniziato a vendere acqua in quella piana a 15 anni; oggi ne ha 21 e continua a svolgere il suo lavoro nel deposito di rottami. «Insieme ad altre coetanee, trasporto i sacchi d’acqua con una carriola e li vendo per 1 Cedi ghanese, pari a 0,15 euro, ai lavoratori che hanno bisogno di spegnere i fuochi e raffreddare il rame estratto dai cavi in fiamme – confida Rashida –. I fuochi vengono accesi di notte, così da aiutare gli operai a gestire meglio il caldo. Si inizia a lavorare quando è ancora buio e gli uomini si aiutano con le torce dei telefoni».
Costruire un futuro migliore
Ma ad Agbogbloshie c’è anche chi ha saputo liberarsi dalle catene dello sfruttamento. Alhassan Ibn Abdallah ha 25 anni ed è uno dei giovani che ha lavorato per tanti anni nella discarica. «Con innumerevoli sacrifici, sono riuscito a risparmiare i soldi per andare all’università – spiega –. Oggi sono un ricercatore della facoltà di Scienze della Comunicazione del Ghana e mi occupo anche di aiutare i bambini, pagando loro gli studi grazie alle donazioni di una Ong con cui collaboro». Per anni Alhassan ha trascinato i rifiuti dal porto alla pianura, bruciandoli a cielo aperto per poter recuperare il rame da rivendere come materiale di seconda scelta. «Insieme a me c’erano tanti altri ragazzi che bruciavano i frigoriferi. Nessun abitante conosce il mondo fuori da quel perimetro».
E se per i Paesi sviluppati smaltire correttamente le attrezzature elettroniche è piuttosto costoso, al contrario, trasformare il continente nero in pattumiera è sicuramente conveniente dal punto di vista economico. Così i depositi africani sono oggi le discariche a cielo aperto dei Paesi occidentali, e pazienza se la natura è deturpata e l’aria, irrespirabile, sa di piombo, cromo e mercurio. Un problema sicuramente politico, ma non solo. Doverosa è infatti anche una riflessione personale: perché è responsabilità di tutti iniziare a praticare un po’ di sobrietà in più, comprando meno apparecchiature, se non per vera necessità, ed evitando di gettare quelle usate, soprattutto se ancora funzionanti. Per dare a quei piedini un prato pieno di fiori.
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