Alterità, parola chiave
Si dice tanto che siamo tutti uguali. Libertà, uguaglianza, fraternità sono le parole della rivoluzione francese e della modernità (l’ultima un po’ meno, a dire il vero). Ma che cosa significa uguaglianza? Prima di tutto non «equivalenza», che è un rapporto di uguaglianza di valore «sotto un certo riguardo». Un rapporto che riduce e astrae, e non a caso appartiene al linguaggio matematico ed economico. Nella concretezza, «uguaglianza» è in «tensione polare», anziché in contraddizione, con «differenza». Solo se ammettiamo che siamo tutti diversi possiamo infatti dire di essere tutti uguali.
Così la differenza non diventa dominio del forte sul debole, ma riconoscimento dell’apporto insostituibile di ciascuno alla ricchezza del mondo comune. In questo siamo davvero uguali. È quella che Hannah Arendt chiamava «la pluralità paradossale di esseri umani unici». Un’altra apparente antitesi da superare è quella tra «differenza» e «identità». La differenza non è minaccia per l’identità, ma ne è parte. Perché nella concretezza ogni identità è plurale, e non è congelata e immobile, ma ha una parte dinamica (basta pensare a quanto ciascuno di noi, pur restando se stesso, cambia nel tempo).
L’ossessione per la purezza identitaria, che vede nella differenza e nei cambiamenti solo dei pericoli, genera invece solo violenza. Al fondo di tutto sta la questione profonda del rapporto con l’«alterità». La presenza dell’altro è possibilità di realizzare un’unità dinamica, in un legame di reciprocità che ci rende capaci di ricevere più di quanto sapremmo ottenere da soli: l’altro non ci toglie qualcosa, al contrario! Peraltro questa comunione nella differenza ha la sua icona nella Trinità: né fusione e indistinzione, né differenza che diventa contrapposizione. Questo è il paradigma cui ispirare le nostre pratiche.