04 Marzo 2019

Altro che Facebook, sant’Antonio preferirebbe parlare ai pesci

Un lettore settantenne, attratto dalle nuove tecnologie, denuncia il degrado linguistico e umano dei social media. Una giungla digitale, che, a suo dire, scoraggerebbe persino sant’Antonio.
Mani di persona anziana con smartphone

GETTY IMAGES

«Gentile direttore, pur avendo superato i 70 da un pezzo, devo confessarle che sono tra quelli che hanno reagito positivamente alle nuove tecnologie. Nuove per me, ovviamente. Prima a tentoni, poi sempre più sicuro e confortato dai nipoti, ho cominciato a maneggiare gli smartphone e a vedermi i documentari storici, che a me piacciono tanto, su YouTube. Poi, da calabrese trapiantato a Milano, mi sono messo a spiare Palmi (RC) con Google Earth, a rivedere la Tonnara, la spiaggia dove da piccolo facevo il bagno, e i tetti della casa dove sono nato, comodamente seduto alla mia scrivania. Una meraviglia, quasi un miracolo! Mi vedo abitualmente attraverso lo schermo con mio fratello in America, che mi pare quasi di averlo a portata di mano. Gli posso raccontare che ho mangiato la pasta con le alici o le novità del giorno: «T’urricordi Pippu u zoppu? Morìu». Poi ho chiuso il cerchio e cinque anni fa mi sono iscritto a Facebook. Non che ci vada matto, perché mi fa sprecare un sacco di tempo e a me piace pure leggere e fare le parole crociate, ma lì, in quello spazio che non so dov’è, con persone che non so spesso chi sono, mi è caduto il “mito tecnologico”. Pensavo che un mondo interconnesso e pieno di possibilità – che ai tempi miei non era neppure immaginabile – fosse un guadagno, un progresso, la possibilità concreta di una sorta di fratellanza universale. Oggi, invece, contemplo atterrito e, ammetto, pieno di vergogna, i commenti dei miei amici digitali sui temi più disparati, dai migranti ai politici, da Sanremo alla Ferragni: insulti, banalità, peraltro sgrammaticate (sono ahimè un insegnante in pensione e questo non mi aiuta), una parolaccia ogni tre parole. Nessuno che sappia più parlare. Peggio, nessuno che sappia davvero qualcosa. E chi ha un po’ di sale in zucca fa la figura del cretino. Questa giungla digitale mi fa rimpiangere le lettere scritte a penna che arrivavano, poste permettendo, dopo venti giorni, le cartoline illustrate che più di sbandierare il posto dove si era in vacanza avevano la funzione di farti sapere che eri importante e che qualcuno si ricordava di te persino a migliaia di chilometri di distanza. Non una parolaccia, non un insulto. E quando t’incontravi al bar del paese, c’era sempre il balordo che la sparava grossa, ma nessuno lo prendeva sul serio. C’era una regola non detta e condivisa che faceva misurare le parole, che segnava i contorni della libertà. Una base comune dove l’altro, chiunque fosse, era uno come te. Oggi sono tutti «superiori», tutti più bravi, tutti più intelligenti, tutti più onesti… a parole. Com’è potuto accadere che all’apice dell’evoluzione siamo ritornati nelle caverne? Lo so, adesso magari pensa che sono il solito vecchio nostalgico. Ma io a capire questi tempi ci ho provato sul serio. Ebbene, direttore, io credo che una rivista come il nostro «Messaggero» abbia oggi anche questa missione importante, non solo analizzare dove siamo andati a finire, quello ahimè lo tocchiamo con mano, basta poco, ma come possiamo uscire dal pozzo nero, insomma ritornare umani, compassionevoli, umili. Non geni, per carità, ma almeno persone di buon senso. Sono sempre più convinto che se sant’Antonio fosse tra noi oggi più che su Facebook ritornerebbe a parlare ai pesci».

 Nello

Ho lasciato la sua lettera così come mi è giunta, peraltro via e-mail, mezzo che conferma la sua sincera e caparbia volontà di adeguarsi ai tempi, rifuggendo la tentazione di ritornare al francobollo. Scherzo ovviamente, perché lei è persona arguta. La sua lettera è una fotografia dei nostri tempi, che condivido in pieno. A differenza di lei, però, penso che nei social media bisogna continuare a esserci, per non lasciare spazio solo a quelli del «pozzo nero», come dice lei. La Rete è la cartina di tornasole di quello che stiamo diventando, è un’altra piazza su cui lavorare, anche se rischiamo di essere sommersi dal guano digitale. Non c’è una ricetta, come sempre, tuttavia credo che il ritorno ai valori, alla capacità di dialogare e di riflettere sul mondo, al rispetto delle persone, al linguaggio urbano, alla libertà di essere davvero se stessi, sia compito di ognuno di noi, fuori e dentro la rete. Che la stampa e il nostro «Messaggero» in particolare debbano assumersi in questo una responsabilità ancora più grande non c’è dubbio. Non solo come mission, per usare un termine molto di moda, non solo perché capire e governare i fenomeni di oggi è fondamentale per la nostra democrazia, ma perché la Parola che salva ha bisogno di tutte le nostre parole. Credo di non rivelarle un segreto dicendole che sant’Antonio aveva predicato ai pesci, ma lo aveva fatto nella speranza che ad ascoltarlo fossero le donne e gli uomini del suo tempo.

 

Leggi anche le altre lettere, gli articoli e gli editoriali del numero di marzo 2019 sulla versione digitale del Messaggero di sant'Antonio!

Data di aggiornamento: 04 Marzo 2019
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